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La Luce naturale al Cinema. Barry Lyndon e I Giorni del Cielo

Il nostro studio si muove attorno a due registi e due autori della fotografia, a Barry Lyndon (id., 1975), e Days of Heaven (I giorni del cielo, 1978), e all’uso e al simbolismo della luce che da loro viene proposto.
La luce è per il cinema lo strumento fondamentale di espressione, l’impalpabile materia che lo costituisce nei suoi minimi elementi. In particolare vogliamo focalizzare la nostra attenzione sulla luce naturale. Vedremo che essa non è, semplicemente, la luce prodotta dal sole o da qualunque altra sorgente non elettrica, ma piuttosto il risultato di un approccio al film esso stesso naturale, mimetico e simpatetico nei confronti dei personaggi e dell’epoca rappresentati. Piuttosto, Barry Lyndon e I giorni del cielo appaiono come due film fondamentalmente classici, in cui non vengono poste limitazioni nell’impiego di risorse espressive del linguaggio cinematografico, perlomeno per ciò che concerne l’oggetto della nostra tesi, che è appunto l’uso naturale della luce.
Per questo la nostra scelta è caduta sui due film, prima ancora che su i loro autori, che sono molto diversi tra loro ma si fondano su un analogo modus operandi nella messa in scena del Settecento inglese (Barry Lyndon) e del primo Novecento americano (I giorni del cielo).
Il primo capitolo introduce all’argomento con una breve storia della luce nel cinema, della cinematografia (la scrittura con la luce in movimento), per dirla con le parole di Storaro, che non è solo uno dei più importanti autori della fotografia, ma forse anche quello che, più degli altri, si è sforzato di studiare, teorizzare e scrivere sul proprio mestiere. Ripercorriamo dunque rapidamente il modo in cui viene impiegata la luce a partire dal primo cinema muto, passando per l’espressionismo, il neorealismo e la Nouvelle Vague. Già in queste prime righe, la nostra attenzione è rivolta soprattutto a cogliere i momenti storici e i singoli film in cui la luce viene usata in modo mimetico.
Vedremo inoltre, nei paragrafi “La luce naturale” e “La luce innaturale”, quanto sia sbagliato, e soprattutto fuori dalle nostre intenzioni, tentare di dare una definizione esatta della luce naturale, che vedremo essere più complessa e relativa di come si possa pensare in un primo momento.
Seguono i due capitoli dedicati ai film presi in esame. Quello dedicato a Barry Lyndon è fondato su un’analisi condotta prendendo in considerazione sia le figure e funzioni prettamente narrative, sia, soprattutto, la composizione delle inquadrature e alcune specifiche risorse tecnico-linguistiche, quali, ad esempio, la profondità di campo, lo zoom, il carrello, la macchina a mano. Inoltre, sempre a proposito di Barry Lyndon, ci si è soffermati sulle citazioni pittoriche, cercando di non cadere nell’errore di ridurre l’analisi a un gioco di riconoscimento della fonte, e, quindi, attraverso le categorie del visibile tipiche dell’estetica settecentesca (bello, pittoresco, sublime), abbiamo riflettuto sulle scelte stilistiche e figurative di Kubrick.
La base di entrambe le analisi è costituita dallo studio dell’uso della luce naturale o, per esprimersi in modo forse più appropriato anche se apparentemente contraddittorio, dall’uso naturale della luce artificiale.
Il capitolo su I giorni del cielo si apre con una presentazione di Terrence Malick, che c’è parsa necessaria per una figura particolare e complessa come quella del regista - meno noto rispetto a Kubrick -, oltre a essere indispensabile per la comprensione della sua opera. In seguito, ci siamo concentrati sul direttore della fotografia Nestor Almendros e sulle scelte e tecniche di ripresa utilizzate per ottenere immagini straordinarie come quelle de I giorni del cielo, per poi soffermarsi sulla questione della luce dell’ora magica (o tragic hour, come ribattezzata da Almendros, per la difficoltà delle riprese effettuate in quel breve lasso di tempo), e tecnicamente detta luce a cavallo, con cui sono state impressionate su pellicola immagini altrimenti impossibili, e dove l’arte fotografica raggiunge livelli unici di virtuosismo senza intaccare la spontaneità, la naturalezza e il realismo, che Malick aveva come criteri principali.
Per questo, le riprese con luce a cavallo di Almendros sono, come quelle a lume di candela di Alcott, immagini che rimangono impresse in quasi tutti gli spettatori, anche in coloro che quasi mai ricordano neppure i nomi dei registi, e certo non sanno cosa si nasconda dietro la dicitura direttore della fotografia.

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3 Introduzione Stanley Kubrick e Terrence Malick; John Alcott e Nestor Almendros. Due americani, di cui uno trapiantato in Inghilterra e l’altro in Europa; un inglese e uno spagnolo che, vissuto in gioventù a Cuba, ha lavorato soprattutto in Francia. Il nostro studio si muove attorno a queste quattro figure eterogenee, due registi e due autori della fotografia, a Barry Lyndon (id., 1975), e Days of Heaven (I giorni del cielo, 1978), e all’uso e al simbolismo della luce che da loro viene proposto. La luce è per il cinema lo strumento fondamentale di espressione, l’impalpabile materia che lo costituisce nei suoi minimi elementi, e, meno enfaticamente, la sola vera condizione indispensabile per la ripresa (e – unitamente al buio – per la proiezione), quindi l’elemento indispensabile per la sua esistenza. In particolare vogliamo focalizzare la nostra attenzione sulla luce naturale. Vedremo che essa non è, semplicemente, la luce prodotta dal sole o da qualunque altra sorgente non elettrica, ma piuttosto il risultato di un approccio al film esso stesso naturale, mimetico e simpatetico nei confronti dei personaggi e dell’epoca rappresentati. A questo proposito, sembrerebbe logico un richiamo al Neorealismo, o alla Nouvelle Vague, invece in nessuno

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