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Confini identitari e riflessi d'alterità. Altro da sè e altro di sè in alcuni esempi letterari.

Confini identitari e riflessi di alterità: è il titolo che, più di ogni altro, mi sembrava potesse comprendere, in un’unica definizione, tutta la vasta tematica che abbraccia il nostro vivere ‘in mezzo agli altri’. Identità e alterità appaiono, sotto più punti di vista, le due facce di una stessa medaglia, per cui l’una non può reggere la sua stessa esistenza senza l’altra. Cogliere quel riflesso estraneo, però, quel riflesso altro, che si annida nelle pieghe più profonde della ‘costruzione’ di noi stessi e che, insieme, ci si pone davanti, in carne ed ossa, come alterità a noi irriducibile, è estremamente difficile. La difficoltà nasce, necessariamente, nel momento in cui questa estraneità, questo altrove, viene a dover essere reso oggetto di un discorso che, partendo sempre da un “qui” situato all’interno di quelli che sono i nostri ‘confini’, come individui o, in senso più esteso, come comunità, nell’impossibilità di coglierne quella che è solo una presunta verità autentica, non fa altro che ‘costruirlo’, attribuendoli, di volta in volta, nuovi ‘confini’ che non contengono più, però, alcun riflesso d’alterità. L’altro, infatti, da specchio ‘riflettente’ della nostra identità, da riflesso nello specchio della nostra stessa immagine, nella sua dimensione di soggetto estraneo e irriducibile a quelli che sono i nostri orizzonti, si fa mero oggetto di definizioni e costruzioni univoche e riduttive che, negando, di fatto, la sua irrinunciabile alterità, lo rendono superficie opaca in cui, noi stessi, non possiamo più riconoscerci. I confini che ci separano, perciò, perdono la loro necessaria e originaria mobilità per, ancora una volta, reificarsi in un ‘muro’ che esclude ogni differenza.
Ma l’alterità ritorna sempre, riportando a galla quella provvisorietà e labilità che, intimamente, ci costituisce. Il nostro scopo, allora, deve essere principalmente quello di de-reificare i concetti operativi che vengono utilizzati nel discorso sull’altro, svelando quella parola che, in senso lacaniano, “sta sempre al posto della cosa, è il luogo di una presa di distanza, di un’astrazione, è la creazione di un vuoto”. E se i nostri discorsi non sono altro che un tentativo di riempire tale vuoto, dovremmo forse rinunciare alla pretesa di cogliere quella verità che supponiamo essere nell’altro e accettare, invece, quel suo “segreto” che, necessariamente, dandoci forma, continua a sfuggirci.
Il vero sforzo, dunque, non sta nel riempire la distanza tra noi e l’altro, che è incolmabile, ma nell’accogliere questa mancanza che ci costituisce; perché, se accettata, e non più negata, può renderci, finalmente, davvero ospitali. Con noi stessi, prima di tutto, e poi, di pari passo, con gli altri.
Un’ultima precisazione, che credo sia utile fare, riguarda il modo in cui ho deciso di strutturare quella che è una tematica che, sin dall’inizio, mi è apparsa nella sua vastità. Ogni capitolo, infatti, è preceduto da alcune pagine introduttive che, nel riassumere in una serie di punti la dimensione del discorso verso cui si sta per rivolgere l’attenzione, fanno anche da guida utile per evitare di perdersi nelle innumerevoli sfaccettature che esso porta con sé. E’ possibile, perciò, seguire il filo rosso segnato dalle diverse note introduttive ai tre capitoli, per ottenere un quadro generale degli obiettivi di questo studio. Questo perché, a mio parere, un singolo lavoro introduttivo che abbracciasse l’intero discorso, sarebbe stato riduttivo e forse, anche, dispersivo.
I testi letterari che accompagnano il viaggio attraverso le teorie dei vari autori, infine, sono serviti come bussola per riportare il discorso, seppure attraverso la penna di due scrittori, dal cielo della teoria al momento dell’incontro reale con l’altro o con se stessi: nello sgomento che provoca la sua stessa esistenza o nella scoperta di quel ‘fantasma’ riflesso nella propria immagine, che smaschera la ‘finzione’ dei propri confini identitari.

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4 Introduzione “Ancora un altro discorso sull’alterità”: è questo quello che, più volte, mi sono sentita ripetere nel corso delle ricerche per la stesura di questa tesi. E si tratta, in effetti, di un argomento più volte scandagliato secondo i diversi punti di vista di vari filoni teorici. Ciò deriva probabilmente dal fatto che, in ogni tempo, in ogni luogo e in ogni cultura, non manca mai la presenza di una dimensione che può essere confinata in quelli che possiamo definire i ‘territori’ dell'alterità. La produzione dell'altro, infatti, è essenziale innanzitutto per la ‘costruzione’ della nostra stessa identità e, conseguentemente, per il mantenimento di quelle società, come la nostra, che si reggono su rigidi meccanismi di inclusione ed esclusione dell’altro e sulle gerarchie che ne conseguono. E’ necessario, però, a mio parere, soffermarsi sui modi in cui questo discorso è stato costruito, seguendo quelle “retoriche dell’alterità” che, mentre cercano di assimilarne i confini all’interno dei propri orizzonti di significato, non fanno altro che perderne di vista i reali contenuti. Seguendo le parole di Pier Paolo Rovatti, infatti, possiamo dire che “la modernità ha prodotto, per tamponare il buco dell’altro”, una serie di strategie discorsive attorno all’idea della ‘buona’ o della ‘cattiva’ alterità che, nella “genealogia dettagliata dei modi di essere della diversità”, non fanno altro che ascrivere l’altro ad una “geografia del medesimo” 1 . Non si tratta, invece, di acquisire un sapere sull’altro ma, al contrario, di spostarci “dal posto sicuro del soggetto della conoscenza e della coscienza, dalle certezze della nostra 1 P. A. Rovatti, Abitare la distanza: per un’etica del linguaggio, Feltrinelli, Milano 1994, p. 146

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