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Modelli di pricing per titoli azionari: la valutazione in economie dinamiche

In questo lavoro sono state studiate alcune tra le più recenti tecniche di pricing per titoli azionari che, sviluppate in contesti dinamici hanno il comune obiettivo di giungere alla specificazione di un prezzo di equilibrio che sia espressivo del valore fondamentale del titolo. Una prima classe di modelli è riconducibile al criterio del residual income nella sua versione primitiva elaborata da General Electric nel 1950 e successivamente sviluppata da Ohlson e Feltham nel corso degli anni ’90. Si tratta di una tecnica di valutazione che fa dipendere il fair value dalla somma di due poste contabili rilevanti, la prima di natura patrimoniale data dal book value, la seconda di matrice reddituale data invece degli utili residuali. Il modello di Ang e Liu ne propone una estensione in un contesto di misura equivalente di martingala e perciò stesso di non arbitraggio, con pricing kernel stocastici.
Successivamente, abbandonando la logica del residual income, Bakshi, Chen e Dong sviluppano, in ipotesi di non arbitraggio, un modello di pricing in cui sulla base di tre ipotesi principali, che stabiliscono la costanza del payout ratio, l’unicità del pricing kernel nell’economia, e l’aleatorietà della crescita attesa degli utili, il prezzo di equilibrio risulta in una funzione di tre input: a) gli utili netti per azione, b) la crescita attesa degli utili, e c) il tasso d’interesse di breve periodo. La dinamica delle variabili rilevanti – utili e pricing kernel – è descritta da processi stocastici di Îto con drift proporzionali rispettivamente ad un tasso spot e ad un saggio di crescita degli utili, che a loro volta si evolvono seguendo processi autoregressivi di ordine primo del tipo di Ornstein e Uhlenbek.

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1 Cap. 1 – INTRODUZIONE Quel ramo della teoria finanziaria noto agli addetti ai lavori e non come asset pricing, affonda le sue radici in un’epoca ben lontana dalla nostra che ha inizio intorno alla prima metà del diciottesimo secolo quando, alla volta del 1738 Bernoulli presentò all’Accademia Imperiale delle Scienze di San Pietroburgo quello che era destinato a divenire uno dei massimi capisaldi della moderna teoria finanziaria. Con quello studio Bernoulli portò all’attenzione dell’intera comunità scientifica la rivoluzionaria idea per cui il valore atteso di un evento incerto non dipende dal suo prezzo ma dall’utilità che esso genera, e al contempo mise in luce con quello che passò alla storia con il nome di paradosso di S. Pietroburgo, la fallacità delle convinzioni all’epoca diffuse, secondo le quali in condizioni di incertezza gli individui dovrebbero optare per l’alternativa contrassegnata dal maggior valore atteso. Egli arrivò a dimostrare che qualsiasi incremento della dotazione di ricchezza determina un analogo incremento dell’utilità, ossia del grado di soddisfazione dell’individuo che a sua volta risulta inversamente legato all’esposizione al rischio da esso sopportata. Va dunque a Bernoulli il merito di aver introdotto per la prima volta il concetto di trade-off tra le variazioni attese della ricchezza e il rischio associato a tali eventualità. Nel corso del diciottesimo e diciannovesimo secolo la nozione di utilità alla Bernoulli venne inquadrata negli schemi della matematica più che delle scienze economiche e lì rimase fino a che nel tardo 1800 la definizione di utilità marginale decrescente assurse al centro della scena del dibattito economico grazie alla spinta in questo senso impressa dai lavori di Jevons, Menger, Walras e Marshall. Da allora la tesi della massimizzazione dell’utilità attesa come scopo primario dei soggetti economici guadagnò sempre più consensi, in modo tuttavia discreto, rimanendo in ombra almeno fino all’avvento della ben nota teoria di Von Neumann e Morgestern che venne pubblicata solo nel 1944. Le istanze logiche del paradigma dell’analisi dell’utilità si fondavano sul convincimento per cui gli individui adotterebbero (o dovrebbero auspicabilmente adottare) se pur in modo inconsapevole, comportamenti ottimizzanti volti alla massimizzazione del valore atteso della propria funzione di utilità. Lo stesso concetto di rischio, rimasto per lungo tempo nebuloso, venne finalmente precisato ma non prima del 1924 ad opera di Knight, a cui va il merito di aver posto un distinguo tra ciò che si intende per rischio e ciò che

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