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1892-2021: la sfilata di moda e i suoi cambiamenti attraverso le pagine di «Vogue Magazine»

«Vogue Magazine» verso lo svecchiamento

L’arrivo a «Vogue» di Diana Vreeland scosse anni di tradizione. Alexander Lieberman, che durante l’intero mandato della Vreeland alla rivista era direttore editoriale di Condé Nast, fu l’istigatore, nel 1962, del suo trasferimento a «Vogue», rubandola da «Harper’s Bazaar».
La Vreeland era nata a Parigi, figlia di un padre scozzese e di una madre americana. Nel 1914 si trasferì a New York e a metà degli anni Venti sposò il banchiere T. Reed Vreeland, trasferendosi poi a Londra, dove il marito, per fornirle un diversivo socialmente accettabile, la sostenne nell’apertura di un elegante negozio di lingerie. Fu lì che strinse amicizia con una delle sue clienti più importanti, Wallis Simpson. Nel 1937 i Vreeland e i loro due figli tornarono a New York. “Non avevo mai pensato di lavorare” dirà più tardi la Vreeland “e l’unica cosa che sapevo era dove andare a farmi fare i vestiti, quindi mi sembrava naturale dedicarmi alla moda”. Carmel Snow, che aveva sentito parlare di lei dalla duchessa di Windsor, le chiese di venire ad «Harper’s Bazaar», dove quasi da un giorno all’altro fu nominata fashion editor. Quando Snow si ritirò nel 1958, Vreeland sperava di essere nominata redattrice capo. Tuttavia, il posto andò a una nipote di Snow, Nancy White, editor di «Good Housekeeping». Sembra che prima di andare in pensione, Snow avesse avvertito i vertici della Hearst che la Vreeland non aveva la disciplina e il giudizio necessari per il lavoro di editore capo. Quattro anni dopo, quando Liberman l’avvicinò per passare a «Vogue», la Vreeland era più che disponibile. Entrò in «Vogue» come redattore associato, mentre Jessica Daves continuò come redattrice. Fin dall’inizio, le relazioni tra le due donne furono pungenti: l’energia inesauribile della Vreeland e le sue idee innovative si scontravano con la visione irremovibile della Daves, che vedeva la rivista come un bastione del buon gusto. In breve tempo Daves cedette e si ritirò in pensione. Al volgere dell’anno, la Vreeland assunse il titolo di editore capo di e il vasto ufficio che era appartenuto a Condé Nast. Nei suoi 27 anni da «Harper’s Bazaar», la maggior parte dei quali come fashion editor, aveva già stabilito la sua leggenda di uragano umano, e fu mentre lavorava per l’antagonista di «Vogue» che creò l’ormai leggendaria rubrica “Why Don’t You”, condita da articoli dai titoli quali: Why don’t you bring back from Central Europe a huge white baroque porcelain stove to stand in your front hall? Perché non ti fai fare il letto in Cina? Perché non lavate i capelli di vostro figlio con lo champagne?
Vreeland intendeva posizionare «Vogue» all’avanguardia del giornalismo di moda, e ora aveva l’autorità di plasmare la rivista secondo la sua visione. Fino all’arrivo della Vreeland, erano gli stilisti della haute couture a dettare le mode che le riviste avrebbero portato. Il ruolo della rivista era quello di assicurare che il trucco e i capelli delle modelle fossero perfetti, che gli abiti che indossavano fossero belli e che li indossassero nei posti giusti. Ma le riviste si limitavano a scegliere e presentare gli abiti, non a crearli o addirittura modificarli. La Vreeland cambiò tutto questo, in un modo tale per cui «Vogue» influenzò più che mai le ultime novità della moda. Era una critica inveterata, indicando agli stilisti gli errori delle loro nuove linee e come correggerli. Era anche un’incontenibile entusiasta, celebrando l’avvento della minigonna e definendo il bikini, che Jessica Daves aveva bandito dalle pagine della rivista, “la cosa più importante dopo la bomba atomica”. Una delle sue principali virtù (o, per i suoi detrattori, uno dei suoi peggiori eccessi) era quella di presentare l’intera gamma di notizie sulla moda, dagli abiti molto eleganti alle linee più eccentriche, facendo di «Vogue» uno strumento d’intrattenimento atteso dai suoi lettori, ma anche un reporter inaffidabile riguardo agli abiti indossabili per la donna della vita reale. “Date alle lettrici quello che non hanno mai saputo di volere”: considerava la rivista un palcoscenico, sulle cui pagine si svolgeva uno show spettacolare. E il palcoscenico doveva avere scenografie e oggetti di scena adeguati: per fornirli, pensava a località per gli shooting nei luoghi più esotici e remoti, India o Giappone, Turchia o Tahiti, il deserto libico o i ghiacciai della Groenlandia.
Negli anni sessanta la rivista iniziò a mostrare nuovi volti, giovani, mentre la professione di modella iniziava finalmente a ricevere il giusto riconoscimento professionale. Fino agli anni Cinquanta infatti il nome di una modella veniva citato (quasi) solo se la donna in questione era di buona famiglia o almeno conosciuta nell’alta società, come le nobildonne che indossarono gli abiti di fattura italiana nel primo servizio fotografico che «Vogue» gli dedicò.
Dal momento dell’arrivo della Vreeland, la moda di «Vogue» divenne più suggestiva, la fotografia più audace e sensuale. La Vreeland, che era molto precisa e piena di dettagli quando dava istruzioni a modelle e fotografi, sosteneva che una foto doveva trasmettere momenti e sensazioni uniche. Nuovi luoghi, nuovi stili e nuovi fotografi richiedevano appunto nuovi volti per esibire le mode. Vreeland mise tra le pagine della rivista la sedicenne Twiggy (il cui vero nome era Leslie Hornby) e la diciassettenne Penelope Tree, entrambe con un look denutrito che divenne il nuovo standard. Le fece diventare delle celebrità stampando i loro nomi in ogni produzione, segnando una nuova partenza per «Vogue». Twiggy, un’icona nella storia delle modelle, fu la prima top model adolescente, con occhi sognanti e un’espressione innocente e angelica; Penelope Tree era una bruna, con una bellezza non convenzionale, quasi androgina; dall’Inghilterra arrivò anche Jean Shrimpton “dalle gambe lunghe”, le cui pose atletiche e flessibili avevano ben poco in comune con l’elezione statica degli anni passati. Altri due nomi che riflettevano la personalità della rivista e dell’epoca furono la modella tedesca Veruschka, che ebbe un ruolo importante nel film Blow-Up di Antonioni, e Lauren Hutton, bellezza memorabile con un sorriso a bocca aperta che pochi anni dopo avrebbe firmato un contratto multimilionario per essere il volto dei cosmetici Revlon. Veruschka apparve su tredici copertine di «Vogue», mentre Lauren Hutton batté tutti i record, apparendo su ventisei.
Nel giugno 1965 «Vogue» usò il termine youthquake per la prima volta, e due mesi dopo pubblicò una produzione sugli youthquakers, persone di cui si parlava o si doveva parlare, come Liza Minnelli, Zubin Mehta, Joan Rivers, Edie Sedgwick e Andy Warhol. Vreeland valorizzava tanto i giovani da lasciare spesso direttamente la possibilità di esprimersi in prima persona sulle pagine della rivista, come quando nel 1966 la stilista inglese Mary Quant scrisse un articolo di quattro pagine su cosa significasse essere giovani in quel momento, e il ruolo che la moda ricopriva nella rivoluzione culturale in atto.
Tutto quello che succedeva a «Vogue» durante gli anni Sessanta ruotava intorno alla partecipazione, alla direzione e al capriccio di Diana Vreeland, che aveva una visione molto particolare di ciò che la vita e lo stile dovevano essere, per non parlare del giornalismo femminile. Chi lavorava da «Vogue» diceva che Vreeland si comportava più come un imperatrice che come un editore. Poteva ordinare di rifare un articolo due, cinque, dieci, un ennesimo numero di volte.
Nessuno poteva discutere con lei dei costi o delle scadenze. La rivista andava in stampa quando lei la considerava “divina”. La ricerca della perfezione generava crisi di logistica, sforamenti di budget, temperamenti irritati, lacrime, defezioni e giornate di lavoro di quindici ore.
Arrivarono gli anni Settanta, iniziati con un periodo di recessione economica a livello nazionale, che colpiva sia i pubblicitari che le case di moda e le riviste. Improvvisamente, tutto ciò che era stato rinvigorente negli anni Sessanta sotto il comando di Diana Vreeland crollò nel nuovo decennio. Gli abiti stravaganti e gli abbinamenti esotici cessarono di piacere, le location paradisiache per i servizi fotografici troppo costose, le modelle non più alla moda. Mentre gli inserzionisti disertavano le pagine della rivista, i capricci e le eccentricità dell’editrice divennero impossibili da sostenere per l’azienda. Nel 1971 la Vreeland era vicina ai settant’anni, e lo stile surreale, ornato e prepotente che aveva imposto alla rivista era già durato otto anni, durante i quali le donne avevano iniziato a cambiare, sia nella vita personale che in quella professionale. E «Vogue», come specchio della realtà, doveva cambiare con loro.
“È stata lì per dieci anni, e i primi quattro o cinque sono stati assolutamente gloriosi, vincenti. Era la più grande redattrice di moda che sia mai vissuta. Ma quello che ci ha buttato giù è che ha continuato a fare figli dei fiori, facce blu e capelli arancioni per molto tempo dopo che tutto questo era finito. Prendeva un bel vestito da sera di Norman Norell e ci metteva degli stivali. Provava i vestiti che pensava fossero daay. Gli stilisti della Seventh Avenue erano in rivolta: Adele Simpson disse che non voleva il suo nome sulle nostre pagine. A Parigi, Diana andava solo alle collezioni che la divertivano, Balenciaga e Givenchy e Saint Laurent, e questo, naturalmente, faceva infuriare tutti gli altri”.
Ma il mondo reale stava cambiando in un modo che non aveva nulla a che fare con i miti della Vreeland. Le donne stavano cambiando, e così i loro bisogni. «Vogue» si stava allontanando sempre più dalle loro vite, mentre loro stavano entrando a schiere a far parte della forza lavoro. Avevano bisogno di qualcosa da indossare, con cui si sentissero bene che le esprimesse. Le vendite in edicola crollarono, le donne smisero di fare shopping. E, nei primi tre mesi del 1971, le vendite delle pagine pubblicitarie di «Vogue» scesero quasi del quaranta per cento. Un giorno di primavera del 1971 a Diana Vreeland venne comunicato che sarebbe stata licenziata. L’annuncio ufficiale del 17 maggio, firmato da Perry Ruston, presidente di Condé Nast, diceva che la Vreeland si stava dimettendo ma che avrebbe continuato ad essere strettamente coinvolta con «Vogue» come consulting editor. Sette mesi dopo la Vreeland lasciò definitivamente l’azienda. È stata la prima redattrice a diventare una celebrità e i suoi splendidi servizi fotografici fotografici cambiarono il modo di presentare la moda. Fece di «Vogue Magazine» uno spettacolo a tutti gli effetti, non solo testimone della cultura della moda bensì uno dei suoi protagonisti. La rivista iniziò un nuovo capitolo con il numero di luglio 1971 sotto la direzione di Grace Mirabella, che rimase a capo di «Vogue» per i successivi diciassette anni.

Questo brano è tratto dalla tesi:

1892-2021: la sfilata di moda e i suoi cambiamenti attraverso le pagine di «Vogue Magazine»

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Informazioni tesi

  Autore: Sofia Busignani
  Tipo: Laurea II ciclo (magistrale o specialistica)
  Anno: 2019-20
  Università: Università degli Studi di Milano
  Facoltà: Editoria e Culture della Comunicazione e della Moda
  Corso: Teoria della comunicazione
  Relatore: Emanuela Scarpellini
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 275

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