Post Fata Resurgo
Vestiti che resuscitano
Come vedremo nel capitolo successivo "L'abbigliamento usato in Italia", la quantità di materiali tessili, principalmente abbigliamento, ma anche tessuti di arredamento e scarti di produzione che finisce nelle discariche di tutto il mondo è un problema misconosciuto, ma assai reale, che dipende dai nostri comportamenti quotidiani.
Stando al rapporto "L'Italia del Riciclo 2010", curato da Fondazione Sviluppo Sostenibile e Confindustria, si stima che dai 3 ai 5 chili pro-capite di prodotti tessili, prevalentemente capi di abbigliamento, finiscano nei cassonetti come rifiuti indifferenziati.
Un kg di abiti usati, raccolti e reimmessi nel ciclo produttivo, o semplicemente riutilizzati, riduce di 3,6 kg le emissioni di CO2, di 6000 litri il consumo d'acqua, 0,3 kg di fertilizzanti e 0,2 kg di pesticidi.
In Italia il settore che gestisce il riciclo del tessile è il CONAU (Consorzio Nazionale Abiti Usati).
Tutti conosciamo i cassonetti gialli della Caritas o di altre organizzazioni per la raccolta degli indumenti usati.
Questi abiti raccolti vengono generalmente selezionati, suddivisi per categoria e rivenduti sotto forma di balle ad intermediari che li esportano e rivendono nei Paesi in via di sviluppo: in questo modo i nostri abiti usati rientrano nel mercato. In Africa, per esempio, le popolazioni autoctone li chiamano "i vestiti dei bianchi morti", perché per loro è inconcepibile buttare un abito che si può usare ancora.
Nella nostra società, invece, è diventato così consueto buttare via, che i Paesi in via di sviluppo cominciano a rifiutare i container carichi di nostri vestiti, spesso ancora con il cartellino attaccato.
Il problema però non è solo legato al post-consumo ed allo smaltimento dei capi usati, ma anche a tutto lo scarto prodotto dall'industria tessile, soprattutto durante la fase di confezionamento.
Ad oggi infatti uno spreco del 15% nel tagliare le parti necessarie a realizzare un capo è considerato più che soddisfacente in termini di ottimizzazione economica, ma costituisce un enorme danno ambientale: è stato stimato che ogni anno vengono scartate nel solo Regno Unito 100 mila tonnellate di tessuto.
Abbiamo visto nel capitolo precedente l'attività di tre marchi che si stanno sviluppando sempre più e che raccolgono sempre più successo, grazie alla pratica di riutilizzo di questi scarti produttivi.
Come abbiamo visto in precedenza, per questioni di economia domestica in passato i tessuti avevano un valore molto alto ed ogni accorgimento per allungare il più possibile la loro vita era una pratica comune a tutti.
Gli abiti avevano diversi centimetri extra di tessuto all'interno delle cuciture per poterlo allargare, anche di diverse misure (quelli da donna anche per poter essere adattati a periodi di gravidanza) Inoltre era consuetudine passarsi i vestiti tra fratelli e cugini e nel momento della necessità riadattarli per essere ancora attuali.
Dagli anni '70 in avanti invece t-shirts e jeans venivano usati ben oltre quello che molti avrebbero definito come la loro fine, stracciati e rattoppati.
La moda di personalizzare a proprio gusto i vestiti si di"use maggiormente negli '80 e questa consuetudine divenne così popolare che nei '90 le case di moda adottarono questa strategia.
Riutilizzare vestiti ormai in disuso nostri o trovati in qualche mercatino, rivisitarli e rimodernarli seguendo il proprio gusto è un gesto che si può realizzare concretamente, spesso con pochi e semplici accorgimenti.
I vantaggi saranno molteplici: quello di avere un capo "nuovo", risparmiando sull'acquisto di un capo in negozio, eviteremo il riempimento di un'altra discarica ed avremo impiegato il nostro tempo in qualcosa di nuovo e diverso, divertente e realizzato da noi con le nostre mani.
Questo brano è tratto dalla tesi:
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Informazioni tesi
Autore: | Jacopo Brogiotti |
Tipo: | Laurea I ciclo (triennale) |
Anno: | 2012-13 |
Università: | ISIA Faenza |
Facoltà: | Design e Arti |
Corso: | Disegno industriale |
Relatore: | Silvia Cogo |
Lingua: | Italiano |
Num. pagine: | 120 |
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