Ripensare Riparando. Riflessione sulla dimensione psicologica della mediazione penale.
Verso una giustizia che impari ad essere “buona”
È opinione diffusa fra i frequentatori della comunità scientifica che la prassi di amministrazione della giustizia alla quale siamo abituati, ossia quella che cerca di garantire l'ordine sociale attraverso l'applicazione delle norme che costituiscono il diritto, elaborate sulla scorta di un processo di astrazione e generalizzazione, secondo cui dal reduplicarsi di eventi con caratteristiche comuni si giunge a tracciare la strategia e gli strumenti da impiegare per disciplinarli, in modo coercitivo e in via sanzionatoria, non sia più in grado di nascondere la sua inefficacia e le sue debolezze.
Lungaggini processuali, verità che conservano un valore puramente processuale ma mortificano la persona in quanto non pienamente rispondenti alla soluzione degli enigmi, costi procedurali elevati, scelte giurisdizionali che tendono a distanziare la giustizia dal cittadino generano un diffuso senso di insoddisfazione e sfiducia verso la giustizia tradizionale. Questa indossa la veste dell'oggettività la quale le garantisce austerità e autorità ma forse non autorevolezza se, provocatoriamente, pensiamo a quanto le norme di cui si pregia vengano raggirate. La giustizia agli occhi dell'uomo appare come un mosaico: visto da lontano lo si coglie nella sua complessità e perfezione, ma scomponendolo nelle singole tessere ognuna di queste ha imperfette peculiarità. E di queste non si può non tener conto se si vuole conoscere il fenomeno nella sua verità. Allora non esiste una “buona” giustizia perché rende insoddisfatto l'essere umano che la subisce, non ne migliora la vita e non gli assicura la correttezza della prassi, però assente è anche una giustizia “buona” che sappia, cioè, prestare attenzione alla dimensione umana dei soggetti coinvolti nelle fattispecie che pretende di regolare. Scrive Claudia Mazzucato che “è rimasta estranea alla natura della giustizia l'aspirazione ad essere buona”.
Essa, in nome dell'oggettività anzidetta, si è preoccupata di disciplinare il caso, il fatto ma ha dimenticato che in questo è coinvolto l'uomo, che l'uomo stesso lo crea agendo o subendo e che il suo essere-nel-fatto implica l'attivazione di una dimensione psicologica, emotiva, talvolta affettiva, in una parola umana, che non può essere ignorata. In questa ottica si capisce che retribuire un danno subito con una sentenza che stabilisce il colpevole e l'innocente, chi deve pagare e chi deve essere risarcito, il reo e la vittima, chi deve subire la punizione e chi deve godere nel vedere la punizione inflitta, serve soltanto ad affermare che la giustizia ha fatto il suo corso, che ha applicato, ancora una volta, una legge che ha mirato a garantire l'ordine e l'equilibrio sociale, che ha soddisfatto una eminente sete di vendetta nella vittima e in chi le sta intorno, ma che non è stata in grado di penetrare le persone che ha giudicato al fine di rilevarne i vissuti e le motivazioni che hanno spinto verso certi comportamenti e che non è mai in grado di indagare se alla decisione del giudice corrisponda un'autentica e profonda soddisfazione della vittima o piuttosto una superficiale, e che è ancor meno in grado di tentare la costruzione di una relazione comunicativa che, agevolando l'apertura all'Altro ed il confronto, permetta il superamento reale del conflitto, la creazione di un legame e l'elusione del rischio di recidiva.
Su questo sfondo di rigidità e di inflessibilità e di insoddisfazione, rilevabile nella maggior parte degli ordinamenti giuridici occidentali, si staglia il bisogno di elaborare nuove pratiche di gestione del conflitto che, senza la volontà di sostituirsi alla giustizia ordinaria, si pongano come “alternativa” plausibile ed efficace nel superare i limiti giudiziari suddetti. Ecco allora la nascita del fervente dibattito sulle ADR, Alternative Dispute Resolution, cioè un insieme di pratiche, modelli, tecniche e istituti che sostituiscano e affianchino il sistema giudiziario tradizionale e che abbiano come obiettivo primario la rigenerazione dei legami che patiscono indebolimento e rottura nelle situazioni conflittuali. Ciò che le ADR propongono è un nuovo modo di gestire le contese, i meccanismi di vendetta che si generano a seguito di atti criminali, sostituendo il paradigma colpapena con quello colpa-riparazione: ciò che si auspica è un'idea alternativa di giustizia che non abbia più la pretesa di risolvere le questioni dando ad ognuno ciò che si merita in conseguenza di ciò che ha fatto o patito, ma che impari a mettere al centro delle pratiche la persona, un'abilità che dimostra di non avere se solo consideriamo il fatto che gli uomini coinvolti in un processo di qualunque natura vengano sterilmente nominati “parti”, sostantivo de-personalizzato e de-personalizzante, che può al massimo aiutare ad inquadrare un ruolo ma senza l'occasione di coglierne le connotazioni, e se si pensa che queste “parti” vengano tenute in considerazione per giungere ad una ricostruzione di fatti tale da poter capire chi sia nel giusto e chi nel torto, quali siano le responsabilità da attribuire, le pene da comminare, i risarcimenti a cui aspirare.
Ma questo sistema, secondo Jacqueline Morineau, “circoscrive il disordine senza riuscire ad eliminarlo”, lo aggredisce e mette a tacere per un momento, lo anestetizza ma non lo elimina: l'eliminazione del disordine è un obiettivo che la giustizia tradizionale non riesce a perseguire e il fatto che medesimi reati continuino a ripetersi nella società o che, per esempio, genitori separati continuino le loro contese o, ancora, che continuino atti di bullismo nelle scuole anche dopo le punizioni ne è testimonianza. È la punizione ad essere inefficace nella risoluzione del disordine perché applicarla tout court è come rispondere a violenza con violenza, in modo meccanico, automatico, coercitivo, perché il punito subisce la sentenza legandola al fatto commesso ma le motivazioni più profonde che hanno portato al fatto stesso rischiano di essere taciute e in questo modo anche la vittima continuerà a chiedersi il perché di quel comportamento lesivo nei propri confronti, così la relazione tra i due soggetti resterà viziata. Ecco che emerge, dunque, la necessità di porre rimedio a questa rottura e al replicarsi di eventi simili attraverso un sistema che, concentrandosi sulle persone, le aiuti a pensare al conflitto e alla associata violenza, di qualunque entità essa sia, di cui sono partecipi, le aiuti a prendere consapevolezza delle ragioni personali che hanno indotto certi atti lesivi, in varia misura, del prossimo e le stimoli a comunicare apertamente tutto ciò senza attivare meccanismi di difesa, senza pregiudizi, in nome della chiarezza e della onestà.
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Ripensare Riparando. Riflessione sulla dimensione psicologica della mediazione penale.
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Informazioni tesi
Autore: | Ciro Intermite |
Tipo: | Tesi di Master |
Master in | La vittima e l'intervento psico-pedagogico, sociale e giuridico più appropriato |
Anno: | 2012 |
Docente/Relatore: | Antonio Godino |
Istituito da: | Università degli Studi di Lecce |
Lingua: | Italiano |
Num. pagine: | 107 |
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