Valutazione empirica dei livelli di gravità della bulimia nervosa
Valutazione empirica dei livelli di gravità della bulimia nervosa
A partire dalla descrizione originale della bulimia nervosa di Russell del 1979 (Russell, 1979), sono stati condotti numerosi studi riguardanti l’eziologia e il trattamento di questa condizione caratterizzata da cronicità, tassi di guarigione insoddisfacenti, decorso tormentato di ricadute, compromissione psicosociale e tassi significativi di comorbilità psichiatrica, complicanze mediche e mortalità (Keel & Brown, 2010; Mitchell et al., 2007; Steinhausen & Weber, 2009).
Storicamente, la presenza o meno di condotte eliminatorie (vomito autoindotto o abuso di lassativi e diuretici) è stata usata per distinguere i due sottotipi diagnostici di bulimia nervosa presenti nel DSM-IV (APA, 1994), basati su studi condotti negli anni ’90 che mostravano differenze in termini di gravità, prognosi e comorbilità psichiatrica tra persone che adottavano queste condotte e quelle che non ne facevano uso, tentando di controllare il peso attraverso l’esercizio fisico e il digiuno (Mond, 2013). Nonostante ciò, i risultati discordanti nel tempo e le incertezze sull’utilità, sulla corretta categorizzazione e sulla validità della diagnosi del sottotipo di bulimia nervosa senza condotte eliminatorie presente nel DSM-IV (Aguera et al., 2013; Mond, 2013), hanno portato il DSM-5 (APA, 2013) ad eliminare questa divisione in sottotipi.
Un’altra novità del DSM-5 (APA, 2013) è l’introduzione di livelli di gravità per i principali disturbi dell’alimentazione descritti nel primo capitolo (anoressia nervosa, bulimia nervosa e disturbo dell’alimentazione incontrollata o da binge-eating). Secondo questa nuova classificazione, i soggetti possono essere suddivisi in quattro livelli di gravità: lieve, moderato, grave ed estremo.
Come si vede nella tabella 2.1, questi livelli di gravità si basano sull'indice di massa corporea (noto come Body Mass Index - BMI) per l’anoressia nervosa, sulla frequenza degli episodi di condotte compensatorie inappropriate (vomito autoindotto, abuso di lassativi o diuretici, digiuno ed esercizio fisico eccessivo) per la bulimia nervosa e sulla frequenza degli episodi di abbuffate per il disturbo da binge-eating (APA, 2013).
La specificazione e l’uso dei livelli di gravità aiuterebbero i professionisti della salute mentale a catturare i gradienti e gli aspetti dimensionali dei disturbi mentali che l'attuale approccio categorico della diagnosi ostacolerebbe (Regier et al., 2013).
La suddivisione dei pazienti, al momento della diagnosi, in base alla gravità clinica, potrebbe indirizzarli al più appropriato livello di trattamento necessario per la loro condizione (Regier et al., 2013). Inoltre, i livelli di gravità introdotti nel DSM-5 potrebbero aiutare ad ottenere informazioni importanti sul diverso decorso e sulla diversa risposta al trattamento dei pazienti diagnosticati con lo stesso disturbo mentale ma con gravità diversa (Regier et al., 2013).
Sebbene lo schema di gravità sarebbe utile non solo per trasmettere informazioni prognostiche ma anche per tenere traccia del progresso dei pazienti, esso è stato aggiunto al DSM-5 in assenza di indagini empiriche e ricerche pubblicate che attestino la sua validità (Gianini et al., 2017; Grilo et al., 2015; Smink et al., 2014); tale gap è stato parzialmente colmato da alcuni studi riportati di seguito.
Per avere utilità clinica, i pazienti appartenenti ai diversi livelli di gravità (si veda la tabella 2.1) dovrebbero mostrare differenze significative rispetto ad una serie di variabili di interesse clinico, come le caratteristiche principali della patologia alimentare, i fattori coinvolti nel processo di mantenimento della malattia, la comorbilità psichiatrica, l’intensità del disagio psichico, la compromissione funzionale e l’esito del trattamento (Gianini et al., 2017).
Diversi studi condotti negli ultimi anni hanno esaminato e supportato l’utilità e la validità clinica e prognostica dei livelli di gravità per il disturbo da binge-eating (APA, 2013), basati sulla frequenza degli episodi di abbuffata (si veda la tabella 2.1).
Nello specifico, si sono riscontrate delle differenze statisticamente significative nelle caratteristiche cardine della patologia alimentare, nei fattori coinvolti nel processo di mantenimento della patologia alimentare, nella comorbilità psichiatrica, nell’intensità del disagio psichico, nella compromissione funzionale e nell’esito del trattamento (Dakanalis et al., 2017a,b,c, 2018; Gianini et al., 2017; Grilo et al., 2015b) tra pazienti con disturbo da binge eating di lieve, moderata, grave ed estrema severità.
Al contrario, finora esistono prove scarse e inconcludenti a sostegno della validità e/o utilità clinica dei livelli di gravità del DSM-5 (APA, 2013) per l’anoressia nervosa, basati sull’indice di massa corporea – BMI (si veda la tabella 2.1).
Nello studio di coorte di Smink e colleghi (2014), i livelli di gravità basati sul BMI sono apparsi validi in termini di distribuzione (in quanto la gravità della maggior parte dei casi era lieve o moderata) e associati sia al detection rate (ovvero la porzione dei soggetti che hanno ricevuto la diagnosi da un professionista della salute mentale) che al tasso di accesso alle cure. Tuttavia, non è stata riscontrata un’associazione significativa tra i livelli di gravità e il recovery rate, ovvero il tasso di guarigione dopo trattamento (Smink et al., 2014).
Questi risultati sono stati replicati in due ulteriori studi condotti su campioni clinici (Dalle Grave et al., 2018; Mustelin et al., 2016). Altri studi su campioni clinici hanno mostrato che, nonostante il tasso di ospedalizzazione cresca con l’aumentare della gravità (Gianini et al., 2017), i pazienti con anoressia nervosa raggruppati sulla base della severità, definita dal valore di BMI (APA, 2013), erano statisticamente indistinguibili nella durata della malattia (Dakanalis et al., 2018), nella qualità della vita (Gianini et al., 2017) e nelle caratteristiche comportamentali della patologia alimentare, ovvero episodi di abbuffate/condotte compensatorie (Machado et al., 2017).
Coerentemente con i risultati ottenuti negli studi condotti su pazienti affetti da disturbo da binge eating (si veda sopra), alcune ricerche svolte su campioni clinici supportano la validità e l’utilità clinica dei livelli di gravità introdotti dal DSM-5 (APA, 2013) per la bulimia nervosa (si veda la tabella 2.1).
Lo studio condotto da Grilo e colleghi (2015a) ha rilevato delle differenze significative nelle caratteristiche comportamentali della patologia (ovvero le abbuffate) in 199 soggetti provenienti dalla popolazione generale e classificati con bulimia nervosa di lieve, moderata, grave ed estrema severità.
Risultati analoghi sono emersi anche da ricerche condotte su campioni clinici, che hanno evidenziato come i pazienti con bulimia nervosa di lieve, moderata, grave ed estrema gravità fossero statisticamente distinguibili per le caratteristiche comportamentali della patologia alimentare, la compromissione funzionale e il recovery rate, ovvero il tasso di guarigione dopo trattamento (Dakanalis et al., 2017a,b,c).
Questi risultati sono in linea con studi precedenti che mostrano come una maggiore frequenza di comportamenti compensatori inappropriati sia correlata ad una percentuale di comorbilità psichiatrica più elevata e un funzionamento psicosociale più compromesso (Colleen et al., 2012; Goldschmidt et al., 2013; Mitchell et al., 2011).
Vista la scarsità delle ricerche sulla validità dei livelli di gravità del DSM-5 per la bulimia nervosa e il fatto che non solo le caratteristiche comportamentali (bulimia) ma anche quelle attitudinali (come l’impulso alla magrezza e l’insoddisfazione corporea) rappresentano un obiettivo saliente del trattamento (Gianini et al., 2017), sono auspicabili ulteriori ricerche che esaminino esplicitamente se i pazienti con bulimia nervosa, suddivisi nei diversi livelli di gravità (definiti dalla frequenza degli episodi di condotte compensatorie inappropriate; APA, 2013), presentino differenze statisticamente significative in tutte le caratteristiche cardine della patologia alimentare. Secondo gli studiosi (Gianini et al., 2017), una comprensione approfondita dell'utilità dello schema di gravità del DSM-5 per la bulimia nervosa richiederebbe di esaminare se i pazienti, suddivisi nei diversi livelli definiti dalla frequenza degli episodi di condotte compensatorie inappropriate (APA, 2013), presentino differenze statisticamente significative in ulteriori variabili di interesse clinico, come l’età di esordio, i fattori coinvolti nel processo di mantenimento della patologia alimentare, la psicopatologia concorrente e l’intensità del disagio psichico (Gianini et al., 2017). Esaminare queste variabili di interesse clinico, come è stato fatto negli studi sulla validità dei livelli di gravità del DSM-5 per il disturbo da binge eating (si veda sopra), ci permetterebbe di avere un quadro più dettagliato e completo riguardo la validità e l’utilità clinica dei livelli di gravità del DSM-5 per la bulimia nervosa (APA, 2013).
Questo brano è tratto dalla tesi:
Valutazione empirica dei livelli di gravità della bulimia nervosa
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Informazioni tesi
Autore: | Elisa Invernizzi |
Tipo: | Laurea magistrale a ciclo unico |
Anno: | 2020-21 |
Università: | Università degli Studi di Milano - Bicocca |
Facoltà: | Medicina e Chirurgia |
Corso: | Medicina e Chirurgia |
Relatore: | Massimo Clerici |
Lingua: | Italiano |
Num. pagine: | 88 |
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