L'approssimarsi delle elezioni presidenziali americane del 1992 e il giudizio sui vari candidati da parte dei giornalisti del ''Corriere della Sera'', de ''la Repubblica'' e de ''La Stampa''
Una società in preda al malessere
In ogni caso, a metà del 1991, quando stava per iniziare la lunghissima campagna elettorale per l’elezione del presidente degli Stati Uniti, chi tentava di sostenere la possibilità sia pur remota di una sconfitta di George Bush, veniva scambiato per un pazzo. Il presidente della guerra del Golfo, della ormai prossima e inevitabile caduta del pericolo comunista, l’uomo che aveva seguito Mikhail Gorbaciov nel suo cammino di riforma, firmato trattati che mettevano fine alla paura della guerra nucleare, non poteva non avere la fiducia degli americani per altri quattro anni. Il Paese festeggiava i reduci della guerra contro Saddam Hussein con un orgoglio quasi fanatico, quella vittoria lavava le sofferenze e l’onta del Vietnam. Semplicemente non si parlava di altri problemi. Se qualche giornale, qualche programma televisivo, qualche studioso poneva dubbi sulla situazione economica e sociale le domande sembravano cadere nel vuoto. Se gliele rivolgevano, Bush si spazientiva. L’unica superpotenza rimasta al mondo aveva tanto tempo davanti a sé. Ci credevano talmente anche i grandi capi del Partito democratico che nessun uomo forte, nessun personaggio di primo piano aveva neppure pensato di cominciare la lunga e faticosa costruzione di una candidatura. L’unica e sola speranza era rappresentata da Mario Cuomo, politico di razza, legislatore illuminato e governatore democratico dello Stato di New York, che però, come in passato, avrebbe rinunciato a candidarsi il 20 dicembre del 1991, per la certezza di non poter superare l’handicap di chiamarsi Mario.
Ad una analisi più attenta, però, dopo quasi undici anni di amministrazioni conservatrici, il periodo più lungo registrato dopo la Seconda guerra mondiale, le elezioni presidenziali del 1992 si stavano per svolgere in un clima internazionale completamente nuovo.
(L’ultima volta, prima di Reagan e di Bush, che i Repubblicani avevano mantenuto la presidenza per dodici anni di seguito, era stato tra il 1920 e il 1932, con Harding, Coolidge e Hoover: un’èra chiusa con il crollo della Borsa di Wall Street, la Grande Depressione, e il più drammatico sommovimento economico, sociale e politico della storia americana, dopo la guerra civile). La guerra fredda, a lungo la bussola della politica americana nel mondo, di fatto non c’era più; il Muro di Berlino costituiva un ricordo; i Paesi ex comunisti dell’Europa dell’Est avevano tutti acquisito indipendenza e autonomia; la Germania si era riunificata il 3 ottobre del 1990 e l’URSS sperimentava una completa disgregazione. Il conflitto nucleare non incombeva con i bombardieri americani permanentemente in volo e gli arabi si apprestavano a condurre negoziati diretti con gli israeliani nel Medio Oriente. Dunque, una pagina di storia che imponeva le priorità internazionali era superata e l’attenzione degli americani tornava ai problemi interni.
Bush, però, alla vigilia della sua campagna elettorale non si era ancora reso conto che la doppia storica vittoria, ottenuta nel confronto con l’URSS (il crollo totale, definitivo e ufficiale dell’Unione Sovietica sarebbe avvenuto per implosione nel giro di pochi mesi, per la precisione tra il 21 e il 25 dicembre ’91) e nello scontro armato col nazionalismo arabo incarnato da Saddam Hussein, non si era tradotta in un rafforzamento della sua presidenza. Stava iniziando a subire, al contrario, un forte calo di popolarità determinato essenzialmente dai problemi economico-sociali lasciati aperti da oltre un decennio di amministrazioni repubblicane: entrata in crisi di interi settori industriali e di numerose imprese agricole perché privati di qualsiasi sussidio governativo; crescita della disoccupazione, salita all’8% con la perdita di milioni di posti di lavoro sia tra i colletti bianchi che tra le tute blu, ben visibile nel crollo dell’industria manifatturiera, da sempre bastione dell’economia americana, che ora produceva soltanto il 16,5% del prodotto nazionale lordo; taglio delle spese per l’assistenza pubblica con conseguenti servizi sociali insufficienti; dissesti delle casse di risparmio che erano costati 150 miliardi di dollari ai contribuenti; banche di ogni dimensione sul lastrico ad un ritmo preoccupante e con decine di fallimenti già avvenuti; aumento delle distanze tra ricchi e poveri ben rappresentato dall’egoismo della classe dirigente e dal crepuscolo del ceto medio, per cui il 60% della ricchezza generata nell’ultimo decennio era andato al 10% più abbiente della popolazione; calo generalizzato del tenore di vita che vedeva in testa le minoranze, che nelle sacche di povertà erano ridotte alla fame. Le statistiche precisavano che la fame la facevano periodicamente 30 milioni di persone. A ciò andava aggiunto un crescente deficit annuo del bilancio statale arrivato a 318 miliardi di dollari, il più alto della storia americana, e un debito complessivo degli Stati Uniti arrivato a 4 mila miliardi, che rendeva pessimistica ogni previsione per il futuro e aveva costretto, inoltre, il presidente ad aumentare la pressione fiscale, invertendo il corso inaugurato da Reagan e smentendo le promesse formulate in campagna elettorale quattro anni prima con lo slogan “Read my lips: no new taxes”.
Nel giro di pochi mesi era cambiato il clima del paese. Quasi trionfale nella primavera del 1991, grazie alla vittoria su Saddam Hussein, l’umore dell’America diveniva depresso e cupo nell’estate-autunno dello stesso anno. Sulla stampa quotidiana e periodica si moltiplicavano articoli e servizi ispirati a pessimistiche previsioni: la caduta di competitività dell’economia, il difficile presente dei “babyboomers”, i quarantenni nati nell’immediato dopoguerra, e il futuro pieno di incognite delle nuove generazioni. Quasi tutti, a destra e a sinistra, si dichiaravano persuasi che negli ultimi anni il paese avesse vissuto al di sopra delle proprie possibilità. Gli anni della presidenza reaganiana e bushiana cominciavano ad apparire come quelli di una grande festa nazionale condotta con abile regia da un consumato uomo di spettacolo e dal suo vice, ma come tutte le feste anche quella era destinata a terminare. [...]
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L'approssimarsi delle elezioni presidenziali americane del 1992 e il giudizio sui vari candidati da parte dei giornalisti del ''Corriere della Sera'', de ''la Repubblica'' e de ''La Stampa''
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Informazioni tesi
Autore: | Claudio Fumagalli |
Tipo: | Tesi di Laurea |
Anno: | 2006-07 |
Università: | Università degli Studi di Perugia |
Facoltà: | Scienze Politiche |
Corso: | Scienze Politiche |
Relatore: | Cristina Scatamacchia |
Lingua: | Italiano |
Num. pagine: | 628 |
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