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L'equilibrio del mercato del lavoro nella visione classico/neoclassica e keynesiana. Due visioni a confronto

Una nuova spiegazione al fenomeno della disoccupazione involontaria

Nello stesso arco di tempo che segnò l’affermazione della Nuova Macroeconomia Classica e come risposta alle tesi che finivano col giudicare inutili, se non dannose, le politiche keynesiane di regolamentazione dell’economia, prese consistenza una nuova scuola di pensiero, la Nuova Economia Keynesiana che ebbe tra i maggiori esponenti studiosi come Stiglitz, Akerlof, Romer, Aziariadis.
La scuola, pur avendo come riferimento principale il programma scientifico di Keynes, tenne a differenziarsi dai post-keynesiani di prima e seconda generazione e pose a fondamento della propria indagine il corpo di pensiero noto agli economisti come Sintesi neoclassica, giudicato il più valido prodotto dell’economia keynesiana in senso ampio. La sintesi neoclassica, tuttavia proprio in quegli anni era stata sottoposta a severa critica da parte dei monetaristi per la mancanza di una convincente base microeconomica dal lato dell’offerta. I nuovi economisti Keynesiani riconobbero la validità della critica, ma osservarono che una indagine accurata sulle motivazioni delle scelte delle imprese e dei lavoratori sulla formazione del salario poteva colmare questa lacuna e spiegare con argomenti convincenti le cause della rigidità dei salari.

Il legame fra rigidità dei salari e spiegazione della disoccupazione fu dunque il punto di partenza della teoria dei nuovi keynesiani, i quali respinsero con convinzione sia la tesi che affermava l’esistenza di un tasso naturale di disoccupazione, sia la tesi che l’allontanamento da detto tasso naturale di disoccupazione, fosse il risultato di politiche economiche che impedivano il libero dispiegarsi delle forze di mercato. La disoccupazione, aveva dimensioni allarmanti e queste dimensioni escludevano la possibilità di ricorrere a spiegazioni che puntavano sul comportamento volontario dei lavoratori, o sulla mancanza di informazioni, o sui tempi di aggiustamento dei mercati. Bisognava dunque, indagare più a fondo sui meccanismi di formazione del salario, individuare le cause della rigidità, al fine di ridare validità teorica a quel progetto di politica economica caratterizzato dal “fine tuning” che tanti vantaggi aveva assicurato alle economie sviluppate.
Risulta, a questo punto, approfondire il dibattito sulla disoccupazione involontaria, perno e fulcro del pensiero keynesiano sulle caratteristiche del mercato del lavoro. Keynes, come è noto, fin dal primo capitolo della Teoria Generale precisò che oggetto principale della sua riflessione era la disoccupazione involontaria, vale a dire quel fenomeno ricorrente nelle economie capitaliste in forza del quale anche quando tutti i mercati raggiungono l’equilibrio tra domanda e offerta, nel mercato del lavoro una percentuale di lavoratori non trova occupazione a causa del basso livello della domanda aggregata di beni e servizi.
Keynes fu molto esplicito nel ribadire la sua convinzione che la causa di questa disoccupazione fosse da rintracciare non in decisioni riguardanti il mercato del lavoro, ma nelle decisioni riguardanti il livello dei consumi e il livello degli investimenti e fu questa la ragione che lo indusse a qualificare come equilibrio di sottoccupazione l’insieme di circostanze che determinano la permanenza dell’offerta del lavoro ad un livello superiore di quello raggiunto dalla domanda, pur in presenza di equilibrio nel mercato dei beni. In questa prospettiva di interpretazione, così come le cause della disoccupazione involontaria erano individuabili considerando l’insieme delle relazioni di produzione e distribuzione, anche i rimedi dovevano assumere come oggetto la domanda aggregata al fine di rimuovere le cause che impedivano una sua piena espansione.

Negli anni Cinquanta, il legame diretto fra andamento della domanda aggregata e livello di occupazione cominciò a subire le prime limitazioni. Gli studiosi della sintesi neoclassica, infatti, misero in evidenza che si assumeva una prospettiva di equilibrio economico generale, la caduta della domanda aggregata poteva essere contrastata anche da una diminuzione dei salari reali o del saggio d’interesse sui capitali di prestito, per la maggiore convenienza ad investire che ne sarebbe scaturita. La disoccupazione involontaria, che in Keynes non aveva alcun carattere di eccezionalità, ma semmai, era un fenomeno ricorrente, divenne così il prodotto di rigidità o nel mercato del lavoro o nel mercato dei capitali o in entrambe.
In realtà sia nello schema originario di keynes, che nel modello della sintesi neoclassica, l’inflazione e la disoccupazione derivano da una stessa causa; l’alto e il basso livello della domanda aggregata, erano considerati come fenomeni alternativi e solo quando il sistema produttivo avesse raggiunto il pieno impiego delle risorse gli eccessi di domanda, nel breve periodo, avrebbero innescato processi inflattivi per l’impossibilità delle imprese di espandere la produzione. La dinamica dei prezzi e dell’occupazione mostrava invece la compresenza della disoccupazione e dell’inflazione e ciò rendeva molto debole l’intera teoria fondata sugli effetti delle variazioni della domanda aggregata.
Una via d’uscita dalla evidente difficoltà teorica fu offerta dall’approfondimento degli studi sulla curva di Phillips. Fu sufficiente infatti accogliere l’ipotesi che le imprese, nei casi di domanda elevata, prima ancora di raggiungere la situazione di pieno impiego preferissero aumentare i prezzi piuttosto che espandere la produzione, per ridare credibilità alle politiche keynesiane. In fondo si trattava di individuare quella combinazione fra disoccupazione e inflazione che produceva danni sociali minori e tentare di raggiungerla mediante calibrati interventi di politica economica.

Nelle analisi fondate sulla curva di Phillips, venne fatta l’ipotesi che le imprese e i lavoratori effettuassero previsioni sul futuro assetto delle variabili macroeconomiche e si regolassero con con calcoli razionali sulla convenienza ad elevare i prezzi piuttosto che espandere la produzione e l’occupazione. Questa circostanza, tuttavia, mentre spiegava la presenza di una crescita dei prezzi e dei salari, anche in presenza di disoccupazione, riduceva in modo drastico, la consistenza dell’ipotesi della rigidità dei salari verso il basso.
A meno di non formulare ipotesi ad hoc, bisognava dunque giungere alla conclusione che nel mercato del lavoro le variazioni del salario erano in grado di assicurare una spinta considerevole verso la piena occupazione. Le ricadute teoriche di questa nuova impostazione monetarista furono tante; in particolare l’idea walrasiana che le decisioni degli agenti nei mercati di concorrenza perfetta avevano la capacità di assicurare il pieno impiego delle risorse di lavoro e capitale che fu rimessa in discussione dagli studiosi Neo-Keynesiani, i quali vollero ridare consistenza alle tesi della sintesi neoclassica sulla rigidità o imperfezione del mercato del lavoro come spiegazione della disoccupazione, senza tuttavia adottare ipotesi non dimostrate o in contrasto con il comportamento razionale degli agenti.

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L'equilibrio del mercato del lavoro nella visione classico/neoclassica e keynesiana. Due visioni a confronto

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Informazioni tesi

  Autore: Fabio Vastano
  Tipo: Laurea I ciclo (triennale)
  Anno: 2016-17
  Università: Università degli studi di Napoli "Parthenope"
  Facoltà: Scienze Economiche e Aziendali
  Corso: Economia aziendale
  Relatore: Floro Ernesto Caroleo
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 39

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Parole chiave

economia
mercato del lavoro
economia aziendale
economia del lavoro
economia e commercio
teoria keynesiana
teoria classico/neoclassica

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