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Pena, diritto e dignità umana

Umanizzazione della pena

L’odierna applicazione della pena alla commissione di un delitto è fortemente vincolata da garanzie costituzionali volte a tutelare in primis la dignità umana. In realtà, nei secoli passati, nell’applicazione della pena non si teneva in considerazione il soggetto al quale veniva inflitta, e le pene più efferate venivano anzi considerate idonee alla repressione di nuovi delitti poiché fungevano da deterrente per la società. Una simile considerazione però, comportava l’inflizione di condanne crudeli per delitti considerabili non gravi; non esisteva quindi nessuna proporzionalità della pena al fatto compiuto. Cade perfettamente qui a proposito la celebre frase di Beccaria: “Non vi è libertà ogni qual volta le leggi permettono che, in alcuni eventi, l’uomo cessi di esser persona, e diventi cosa”, affermazione condivisa e confermata vent’anni dopo nella seconda formulazione dell’Imperativo Categorico kantiano. Il merito del lungo processo di umanizzazione della pena lo si deve dare senza dubbio all’Illuminismo, che ha contribuito all’eliminazione di supplizi e torture considerati oggi riprovevoli e orribili; si giunge quindi alla riforma del diritto penale moderno che ha distrutto tante pene barbare e disumane ed ha eliminato punizioni troppo severe, come la pena di morte, per delitti non gravissimi, come ad esempio il furto, cercando così di attuare una certa proporzione fra delitto e pena.

La tesi più fortemente mossa è quella riguardante l’abolizione della pena di morte, ancora oggi è in vigore in alcuni stati; già Beccaria si riteneva un abolizionista, infatti affermava: “Quale può essere il diritto, che si attribuiscono gli uomini, di trucidare i loro simili? Non certamente quello da cui risultano la sovranità e le leggi,…, parmi un assurdo, che le leggi, che sono l’espressione della pubblica volontà, che detestano e puniscono l’omicidio, ne commettano uno esse medesime, e per allontanare i cittadini dall’assassinio, ne ordinino uno pubblico”. Applicando la pena di morte il colpevole viene considerato come l’incarnazione del delitto che ha compiuto e non più come persona, difatti, si elimina il criminale per eliminare il crimine che ha commesso. In realtà molti hanno considerato la pena di morte da un punto di vista utilitaristico, asserendo che il fine primario della pena capitale è quello di reprimere, attraverso il senso di orrore che provoca nella società, la commissione di crimini. A questa ipotesi molti altri hanno replicato affermando che l’uomo non può e non deve essere lo strumento deterrente nelle mani dello Stato, lo stesso Kant ha più volte ribadito il concetto di uomo come fine e non come mezzo; altri ancora hanno invece considerato la pena di morte come una pena rieducativa, come ad esempio si evince dalle affermazioni di Mathieu: “Con enorme scandalo dei suoi denigratori, delinquenti incalliti, che mai avrebbero riacquistato una coscienza morale soggiornando per quanto a lungo in uno stabilimento di pena, appaiono redenti e trasformati anche soggettivamente da una condanna a morte”. Un’affermazione del genere è facilmente opinabile dato che, essendo la pena capitale una pena di per sé indeterminata, la sua durata è diversa se applicata ad un uomo di vent’ anni o ad uno di ottanta, perciò il fine rieducativo del quale parla Mathieu non può ritenersi né valido né tantomeno esistente. Lo stesso Mathieu prende in considerazione questo tipo di obiezione affermando: “Quand’anche la pena di morte servisse a convertire il peccatore, si dirà, serve al tempo stesso a distruggerlo: strano modo di rieducare”. In realtà, l’obiezione fondamentale, è quella consistente nel dire che la pretesa funzione rieducativa della pena di morte è contraddittoria, e – se l’argomento non fosse tragico – risibile, dal punto di vista non della società e del suo interesse, ma della persona interessata; si uccide una persona e si pretende anche di rieducarla. In effetti vi sono stati casi in cui, di fronte alla morte, delinquenti incalliti si sono realmente convertiti, ma in questo caso sarebbe crudele e ingiusto infliggere la morte a chi ormai è convertito e che potrebbe fare del bene.

Mario Cattaneo ha presentato un problema qualificabile come filosofico, ovvero considerare legittimo equiparare la perdita di un diritto a causa della commessa violazione di un diritto altrui, ad una certa misura temporale. Cattaneo si chiede cioè, se è lecito eliminare una parte del tempo della vita di una persona, attraverso la reclusione, per un delitto che questa ha commesso. Il caso estremo nella speculazione di Cattaneo, è rappresentato dall’ergastolo, in merito, infatti, egli afferma: “Come la pena di morte è violenza fatta all’uomo, è interferenza dello Stato in un campo che è sottratto alla sua competenza (perché la vita viene da Dio), così la pena dell’ergastolo è violenza assoluta arrecata al tempo dell’uomo; è distruzione totale del suo tempo, e in ciò poco si differenzia dalla pena di morte; o meglio, si differenzia da questa soltanto per la sua riparabilità (ma anche questa relativa perché il tempo passato in carcere ingiustamente non può essere restituito)”. Egli definisce la pena capitale come morte fisica, mentre il carcere a vita come morte civile, entrambe dannose in egual misura ed inaccettabili umanamente. Concorda da questo punto di vista con Mathieu, il quale definì l’ergastolo come “una pena di morte rinviata”. Il carcere a vita, pur apparendo riparabile, è altamente contrario al senso di umanità, la sua riparabilità è infatti condizionata da fattori, diversi per ogni singolo caso concreto, impeditivi per la riparazione di una eventuale pena ingiusta. Un altro elemento a sfavore dell’ergastolo, Cattaneo lo trova nella incertezza del tipo di pena, poiché né il legislatore né il giudice possono predeterminare la durata effettiva della vita umana; stando alle considerazioni di Cattaneo l’ergastolo, quindi, violerebbe il principio della certezza del diritto, costituendo una considerevole eccezione in quegli ordinamenti fedeli a tale principio. In sostanza egli rivendica “la mancanza di un limite massimo, l’impossibilità di sapere quando finirà; e questo vale sia per la pena (o la misura di sicurezza) consapevolmente presentata come indeterminata, sia per la pena che deve durare tutta la vita del condannato (dato che è impossibile prevedere la durata di questa vita)”.

Ad ogni modo, prescindendo dal rapporto pena-tempo, occorrerebbe rendere più umana l’esecuzione della pena, limitando la sofferenza, che questa impartisce, alla mera privazione di libertà; spesso accade infatti che i sovraccarichi disciplinari, gli abusi perpetrati dalle guardie carcerarie e l’inadeguato controllo di sicurezza tra i detenuti, siano causa di ben più gravi conseguenze che ricadono inevitabilmente sia sul detenuto sia sulla sua famiglia. Alcuni hanno proposto anche una violazione del principio della personalità della pena in relazione alle sofferenze che i familiari subiscono in seguito alla detenzione di un componente della famiglia, soprattutto se si tratta del padre. Pene accessorie infatti, come la confisca dei beni del condannato, si ripercuotono sullo stile di vita di soggetti innocenti; dal punto di vista sociale questi soggetti subiscono una emarginazione a causa di un crimine che non hanno commesso. Questo problema è stato preso in considerazione dal Beccaria, il quale affermò che: “Le confische mettono un prezzo sulle teste dei deboli, fanno soffrire all’innocente la pena del reo, e pongono li innocenti medesimi nella disperata necessità di commettere delitti. Qual più tristo spettacolo, che una famiglia strascinata all’infamia e alla miseria dai delitti di un capo, alla quale la sommissione ordinata dalle leggi impedirebbe il prevenirli, quand’anche vi fossero i mezzi per farlo?”. Anche Del Vecchio ha fornito delle osservazioni in merito affermando che: “Una delle maggiori incongruenze degli odierni sistemi penali è l’impossibilità della quale sono posti i reclusi di adempiere i loro obblighi di assistenza familiare, imposti dalle leggi civili. È una incongruenza ancora più grave, perché contrasta con un’esigenza primaria della giustizia, è nel fatto che per gli odierni sistemi, specialmente nei casi di reclusione per lungo tempo o a vita, le pene cagionano sofferenze crudeli, oltre che al reo, ai suoi congiunti innocenti. Basterebbe ciò, a mio modesto avviso, perché ogni retta coscienza debba auspicare una riforma o almeno mitigazione dei vigenti sistemi penali. Il più elementare senso di umanità dovrebbe suggerire, pur sotto l’impero di cotesti sistemi, un’opera di assistenza e soccorso alle famiglie dei carcerati: un’opera della quale esistono finora solo gli inizi.”

È facilmente comprensibile, quindi, che nonostante gli sforzi illuministici di imprimere negli ordinamenti moderni la consapevolezza della necessaria tutela dei diritti umani e della dignità, ancora oggi il problema, seppur ridimensionato rispetto agli antichi supplizi, sia attuale; considerando che i bisogni odierni sono diversi, gli ordinamenti dovrebbero fornire soluzioni migliori al fine di rendere meno problematica la detenzione limitandone le ripercussioni.

Questo brano è tratto dalla tesi:

Pena, diritto e dignità umana

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Informazioni tesi

  Autore: Eleonora Alaimo
  Tipo: Tesi di Laurea Magistrale
  Anno: 2017-18
  Università: UKE - Università Kore di Enna
  Facoltà: Giurisprudenza
  Corso: Giurisprudenza
  Relatore: Lucia Corso
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 84

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