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I corpi spezzati

Storia del senso di colpa

Nell’ottobre 2017 scoppia il caso Weinstein: Harvey Weinstein, produttore cinematografico statunitense, creatore di Miramax e vincitore di numerosi premi alla carriera, venne accusato di molestie sessuali da oltre 80 attrici con cui aveva lavorato. La vicenda diede vita alla campagna di matrice femminista #MeToo, lanciata con un hashtag social, sotto la quale si riunirono tutte le donne vittime di violenza sessuale o molestie soprattutto sul posto di lavoro. Questo riportò in auge la questione del consenso e ridonò voce a tutte coloro che, dopo anni di silenzio, decisero di denunciare gli abusi subiti dai propri superiori in virtù della propria inferiorità gerarchica. Assieme a Weinstein affondarono altre personalità influenti del mondo dello spettacolo, della politica e dello sport, considerati da sempre come “intoccabili”. Eppure, durante i processi e soprattutto sulle testate che raccontavano le scabrose vicende sotterranee, le vittime non ne uscivano completamente innocenti.

La colpevolizzazione della vittima è una caratteristica nota dei casi di stupro: l’abbigliamento, il comportamento, le abitudini sessuali prima della violenza vengono analizzate, sviscerate nell’aula di tribunale nonché da tutti i voyeur appassionati di cronaca. Poco importa che la vittima sia poco più di una ragazzina: la donna, per alcuni, resta una tentatrice, in qualche modo inconsapevole “se l’è cercata”.
La fonte è da ricercarsi nella storia: già nell’Ars Amatoria di Ovidio il celebre poeta latino enunciava il vis grata puellae, ovvero “la violenza è gradita alla fanciulla”. Le donne dell’epoca dovevano mostrarsi pudiche e reticenti ad accettare le avances dei propri pretendenti, che perciò erano legittimati a sfogare la propria aggressività sessuale. Il negarsi delle fanciulle era considerato soltanto un modo per conservare la propria reputazione: in realtà, era soltanto uno stratagemma per non essere considerate spudorate e la violenza era dunque universalmente accettata.

In età moderna la sessualità divenne un’arma per tutte le donne la cui unica occasione di rivalsa sociale era il matrimonio: il Concilio di Trento9, svoltosi tra il 1545 e il 1563, elaborò una nuova norma. Aut nubat, aut dotet, aut ad triremes sanciva che un uomo che avesse costretto una fanciulla ad avere rapporti sessuali (il consenso di lei non era contemplato, essendo la donna un soggetto passivo) prima del matrimonio era obbligato, se portato in tribunale, a sposarla oppure a risarcirla di una dote. In caso di rifiuto, l’uomo veniva condannato alla reclusione. Questa nuova legislazione diede alle donne un potere enorme: l’atto sessuale, che fosse consenziente o meno, doveva essere immediatamente essere reso pubblico. Non bastava la testimonianza della donna che l’avesse subito, ma, in sede di processo, servivano le testimonianze di familiari, vicini di casa, estranei che dimostrassero che la “vittima” si fosse concessa soltanto perché le era stato promesso un matrimonio. L’atto sessuale fuori dal legame nuziale non era legittimato ma quantomeno accettato e garantiva alla donna un metodo di rivalsa su chi le aveva sottratto il suo unico bene, nonché il più prezioso: la verginità.

Ci fu chi sfruttò la nuova norma per sfuggire dalla castità imposta e ottenere un matrimonio, unico mezzo di riscatto sociale nonché di riconoscimento come persona giuridica. Ma fu anche un’arma a doppio taglio: le donne vittime di stupro erano infatti obbligate, spesso, a sposare il proprio violentatore in quello che passò alla storia come matrimonio riparatore, usanza che compare anche nella letteratura come in “Una donna” di Sibilla Aleramo o in “La lunga vita di Marianna Ucrìa” di Dacia Maraini. Qui le protagoniste, reali o inventate che siano, hanno la possibilità di un lieto fine. Ma la maggior parte di vittime non era sempre così fortunata.
Le donne iniziarono ad essere viste non più come figure pure ed eteree ma come sadiche tentatrici, disposte a tutto pur di ottenere un buon matrimonio, anche di rinunciare alla propria rispettabilità rifiutando l’astinenza. Ci fu chi, in tribunale, sostenne coraggiosamente la propria posizione rivendicando il proprio diritto alla libertà sessuale, ma ci fu anche chi, per un rapporto imposto o consensuale, fu costretta ad abbandonare il paese, trascorrere da sola il resto della vita, partorire un figlio non desiderato.

Spesso, inoltre, il violentatore veniva assolto perché era ben radicata l’idea che un rapporto non potesse avere luogo senza il consenso della donna. Voltaire raccontava che una regina, per rispondere alla richiesta di giustizia di un’altra donna, prese il fodero di una spada e lo agitò, con l’intenzione di dimostrare che, in movimento, riporvi la spada era impossibile. Così funzionava per lo stupro.
E fu così che la vittima divenne, durante i processi, l’imputata, esattamente come Fiorella in Processo per stupro. La colpevolizzazione della vittima è tanto più evidente quando l’uomo accusato di averla stuprata è una personalità pubblica, una celebrità, un membro delle forze dell’ordine. Ma basta che l’uomo in questione sia bianco, di estrazione sociale borghese, senza precedenti o molto giovane. In casi simili, gli avvocati difensori e la stampa si sono affrettati a dichiararne l’innocenza prima della sentenza, condizionando l’opinione pubblica.

Questo brano è tratto dalla tesi:

I corpi spezzati

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Informazioni tesi

  Autore: Giulia Gotelli
  Tipo: Tesi di Master
Master in Master di Primo livello in Giornalismo
Anno: 2019
Docente/Relatore: Massimo Gagliardi
Istituito da: Università degli Studi di Bologna
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 59

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Parole chiave

giornalismo
cronaca
femminismo
stupro
cronaca nera
gender studies
corpi spezzati
narrazione dello stupro
linguaggio di genere

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