Sviluppo sostenibile: la tutela dell'ambiente nel diritto internazionale
Sovranità e discrezionalità degli Stati
Una volta verificata la sostanziale inefficacia dei maggiori principi di diritto internazionale nel limitare, o quanto meno vincolare, la sovranità degli Stati sul proprio territorio nazionale, è utile compiere qualche considerazione in merito alla sovranità territoriale sia come norma giuridica internazionale sia come diritto soggettivo degli Stati, anzitutto attraverso l’analisi del principio 21 della Dichiarazione di Stoccolma.
In primo luogo, bisogna ricordare che il concetto di sovranità, inteso come esercizio esclusivo della propria autorità in uno specifico campo sia temporale che spaziale, ha rappresentato il principale presupposto sul quale ha trovato fondamento la CI. È facile comprendere, dunque, il motivo per quale la preservazione del diritto di sovranità e, quindi, del potere esclusivo di governo di uno Stato sulla propria comunità territoriale costituisca un dovere essenziale del diritto internazionale. In questo senso, la sovranità territoriale, ovvero la sovranità interna, è ampiamente riconosciuta come parte del diritto internazionale ed opera come vero e proprio diritto ascritto ad uno Stato: un esempio è rappresentato dalla sentenza relativa al caso Isola di Palmas del 1928, nella quale il giudice Huber definì esplicitamente la sovranità come diritto soggettivo dello Stato affermando che “la sovranità nei rapporti tra gli Stati significa indipendenza”, coincidente con il diritto dello Stato di esercitare, esclusivamente, sul proprio territorio, le proprie funzioni. La centralità del principio di sovranità territoriale nelle relazioni tra gli Stati, infatti, trova espressione nell’obbligo di diritto internazionale di non violare la sovranità degli altri Stati e, quindi, non intaccare la loro autonomia. Questo obbligo ha praticità nel, già analizzato, divieto di inquinamento transfrontaliero, che stabilisce il dovere di non causare danni transfrontalieri al territorio degli altri Stati e, implicitamente, di non violare la loro sfera di sovranità.
La Dichiarazione di Stoccolma, al principio 21, manifesta apertamente il carattere bivalente che contraddistingue il principio della sovranità territoriale rispetto alla necessità di protezione ambientale: da una parte, infatti, si impegna a riconoscere a ciascuno Stato l’esclusiva autonomia di condotta nello sfruttamento delle risorse naturali del proprio territorio, mentre dall’altra riafferma la responsabilità degli Stati per danni transfrontalieri all’ambiente altrui. Questa divisione è un aspetto fondamentale ai fini della nostra analisi, in quanto avrebbe reso il principio oggetto di una duplice interpretazione: una prima secondo la quale la norma riconosce piena sovranità e discrezionalità allo Stato nello sfruttamento del proprio ambiente, e una seconda che considera la norma come base per una futura evoluzione giuridica in materia di responsabilità per danni ambientali transfrontalieri.
Analizzando il principio 21, la situazione si complica ulteriormente. Nella sua prima parte, infatti, esso si esprime nei seguenti termini: “States have (…) the sovereign right to exploit their own resources pursuant to their own environmental and developmental policies”. Il principio, dunque, riconosce esplicitamente agli Stati il diritto di sovranità sulle proprie risorse naturali e, in questo senso, potrebbe sancire la sostanziale incapacità del diritto internazionale di agire rispetto a tale diritto e di condizionare la gestione delle risorse naturali sotto il dominio dello Stato. A bilanciare questa possibile situazione, tuttavia, è l’ultimo inciso del principio che sembrerebbe condizionare il diritto di sovranità degli Stati secondo “le loro politiche ambientali e di sviluppo”.
L’inciso, tuttavia, potrebbe avere una duplice funzione giuridica. Una prima interpretazione vedrebbe la clausola porsi a favore della sovranità degli Stati, in quanto riconosce a quest’ultimi piena autorità e autonomia nell’attuazione di politiche ambientali, riconfermando un approccio individuale nella gestione delle problematiche ambientali che, come visto nei paragrafi precedenti, sembra essere il più inadatto. Una seconda ipotesi, invece, sostiene che la clausola avrebbe lo scopo di limitare, per quanto possibile, la libertà degli Stati, condizionando l’esercizio della loro sovranità sulle risorse naturali attraverso un impegno al perseguimento di politiche a favore dell’ambiente e dello sviluppo. Sebbene questa seconda interpretazione dell’inciso consentirebbe una più efficace evoluzione del diritto interno ed internazionale in materia ambientale, la questione continua ad essere fortemente controversa.
Tuttavia, indipendentemente dalla funzione giuridica che si intende riconoscere a tale clausola, quest’ultima contribuisce a consolidare ulteriormente la tesi secondo la quale tra le prerogative di sovranità degli Stati trovi posto, in maniera assoluta, la protezione ambientale. È corretto, dunque, identificare la sovranità territoriale come diritto soggettivo che riconosce al soggetto in questione, lo Stato, il potere di agire (agere licere) in modo libero avendo esso ad oggetto un bene materiale: l’ambiente.
Nonostante il principio 21 non sembri fornire una soluzione efficace alla mancanza di un metodo d’azione unitario alla tutela dell’ambiente, la sua seconda parte potrebbe dare un contributo importante alla futura transizione che il diritto internazionale dovrebbe compiere. Esso, infatti, riconosce agli Stati “the responsibility to ensure that activities within their jurisdiction or control do not cause damage to the environment of other States or of areas beyond the limits of national jurisdiction”. Questa formula si potrebbe considerare il punto centrale dal quale partire per contrastare l’ostacolo che la sovranità rappresenta ai fini di una gestione coesa del bene giuridico “ambiente”. Questa, difatti, stabilisce un obbligo di prevenzione di più ampio raggio rispetto al divieto di inquinamento transfrontaliero precedentemente considerato: esso non si limita al danno provocato al territorio degli altri Stati, ma anche alle aree del globo non sottoposte alla giurisdizione di alcuno Stato. Si tratta di un principio che, sebbene non abbia trovato alcuna applicazione nella prassi, traduce coerentemente l’idea secondo la quale il diritto internazionale debba considerare l’ambiente, o meglio la Terra, come bene comune e condiviso (patrimonio comune dell’umanità).
La prospettiva positiva che accompagna il principio 21 della Dichiarazione di Stoccolma, tuttavia, non è sufficiente a colmare la mancanza nel diritto internazionale di rigidi regolamenti e disposizioni che garantiscano la tutela dell’ambiente e cooperino al perseguimento dello sviluppo sostenibile. Tale precarietà concorre a diffondere la tesi in base alla quale è la scarsa forza dispositiva la principale causa del divario tra gli ordinamenti giuridici interni e il diritto internazionale dell’ambiente.
Inoltre, questa considerazione permette di introdurre un’altra questione di centrale importanza: la discrezionalità degli Stati. La tradizionale distinzione, infatti, tra norme obbligatorie e “programmatiche” nel diritto internazionale dell’ambiente non è sempre corretta, in quanto la concreta efficacia delle norme relative a specifici settori (nel nostro caso l’ambiente) è strettamente correlata al valore giuridico del documento contenente tali norme. Di conseguenza, il carattere non consuetudinario delle Dichiarazioni, viste nel capitolo precedente, spiegherebbe l’inefficacia delle norme in esse previste. Le norme tecniche, inoltre, posso essere classificate in base al grado di discrezionalità di cui godono gli Stati per adempiere agli obblighi cui sono impegnati. La dottrina distingue tra due gradi di discrezionalità: verticale ed orizzontale. Nel primo caso il margine di discrezionalità è esplicitamente previsto dalla norma tecnica: in altre parole, nel caso in cui uno Stato fosse autorizzato ad esercitare una discrezionalità di tipo verticale, esso si discosterà dal dettato della norma (cioè dagli obblighi in essa previsti) entro i limiti stabiliti dal dettato della norma stessa. Nel secondo caso, invece, la discrezionalità si contraddistingue per la possibilità di impiegare strumenti e strategie diverse per l’adempimento da parte dello Stato degli impegni previsti dalla norma internazionale. In questo caso, lo Stato, posto di fronte ad un obiettivo da realizzare, ha la facoltà di scegliere gli strumenti più adeguati a darne attuazione.
A questo punto, per comprendere quanto la discrezionalità orizzontale possa incidere sull’adattamento dell’ordinamento giuridico nazionale al diritto internazionale dell’ambiente, è necessario compiere un’ulteriore distinzione. Gli obblighi fissati all’interno delle norme possono essere classificati in obblighi di condotta (di mezzi, o di diligence) che si identificano con l’obbligo di compiere determinati atti per il conseguimento dell’impegno contenuto dalla norma e in obblighi di risultato che, invece, impongono allo Stato il soddisfacimento dell’impegno dichiarato indipendentemente dal comportamento adottato. La distinzione in esame è oggetto, ancora oggi, di un irrisolto dibattito relativo alla natura degli obblighi in materia ambientale e dello stesso principio dello sviluppo sostenibile. La dottrina, tuttavia, è più incline a considerare il principio dello sviluppo sostenibile, l’’adattamento dell’ordinamento nazionale a quello internazionale e i principi generali in materia ambientale come obblighi di mezzi piuttosto che di risultato.
Sebbene, infatti, lo sviluppo sostenibile non si identifichi a pieno come obbligo di “due diligence”, in quanto gli obblighi di questo tipo sono tradizionalmente negativi (cioè vietano l’avverarsi di un determinato esito), la giurisprudenza è piuttosto compatta nel riconoscere al principio dello sviluppo sostenibile il carattere di obiettivo relativo. Il principio, quindi, indentificherebbe l’obbligo a carico degli Stati di adottare strumenti atti a promuovere lo sviluppo sostenibile e non il dovere assoluto di realizzarlo. L’obbligo di condotta, dunque, sarà considerato violato nella misura in cui uno Stato non abbia adottato sufficienti strumenti atti a favorire la sostenibilità, senza doverla assicurare, e ciò sarà verificato confrontando il comportamento dello Stato con un comportamento assunto come convenzionale per soddisfare i presupposti dell’obbligazione.
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Questo brano è tratto dalla tesi:
Sviluppo sostenibile: la tutela dell'ambiente nel diritto internazionale
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Informazioni tesi
Autore: | Carlo Alberto Abruzzo |
Tipo: | Laurea I ciclo (triennale) |
Anno: | 2020-21 |
Università: | Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano |
Facoltà: | Scienze Politiche |
Corso: | Scienze politiche e delle relazioni internazionali |
Relatore: | Andrea Santini |
Lingua: | Italiano |
Num. pagine: | 55 |
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