Ruolo della risposta immunitaria innata nell’infezione da Coronavirus SARS-CoV-2
Sindrome respiratoria acuta grave 2 da Coronavirus
La sindrome respiratoria acuta grave 2 da Coronavirus o SARS-CoV-2 è un ceppo virale appartenente al genere dei Betacoronavirus, sottogenere Sarbecovirus, responsabile sia di patologie comuni, quali il raffreddore, sia di malattie più gravi, in grado di infettare mammiferi ma anche ospiti a sangue freddo e umani. L’eziopatogenesi sembra di carattere zoonotico e non dovuta ad un’alterazione artificiale (K. G. Andersen et al. 2020). Nell’uomo, i principali sintomi dell’infezione che sono stati registrati e riportati sul portale del Ministero della Salute italiano comprendono febbre, tosse, rinite, mialgia, dispnea, congestione nasale, gola infiammata, cefalea, malessere generale e in alcuni casi (nel 20% dei positivi) è richiesto il ricovero in ospedale in presenza di polmonite, sindrome respiratoria acuta grave e/o insufficienza renale. I soggetti più a rischio sono anziani, ipertesi, pazienti con problemi cardiaci e diabetici. La trasmissione avviene principalmente tramite il contatto con le goccioline del respiro di infetti quindi in seguito a colpi di tosse o starnuti, ma anche in seguito a contatti diretti tra mani contaminate e bocca, occhi o naso. Il periodo di incubazione, ovvero quanto intercorre tra il momento del contagio e lo sviluppo dei sintomi clinici, è stimato fra 2 e 14 giorni ma potrebbe prolungarsi oltre le due settimane.
I metodi diagnostici includono la PCR del campione respiratorio, test sierologici e delle IgM, l’imaging toracico, emocromo completo e il test di funzionalità epatica. In Italia, la diagnosi dell’infezione avviene tramite l’esecuzione di un tampone rinofaringeo nei laboratori di riferimento delle rispettive regioni, secondo i protocolli indicati dall’OMS che riguardano la Real Time PCR per SARS-Cov-2. Nel pieno della pandemia, l’Ospedale di Circolo di Varese e del Policlinico S. Matteo di Pavia, in collaborazione con l’Università degli Studi dell’Insubria, stanno sperimentando un metodo nuovo per la diagnosi dell’infezione. Questo test innovativo, si avvale del tampone nasofaringeo e permette di dare un esito in
circa 70 minuti, facilitando l’attività d’urgenza in Pronto Soccorso. Inoltre, l’Università degli Studi dell’Insubria e l’Ospedale di Circolo di Varese hanno avviato nel mese di aprile 2020 la sperimentazione di un test con lo stesso funzionamento di quello di gravidanza allo scopo di valutare la positività a SARS-CoV-2 in pochi minuti. Si applica un campione di saliva su carta assorbente incolore che, nel caso di esito positivo, presenterà una banda colorata. Dalla fine del mese di aprile, si possono richiedere i test sierologici per comprendere chi realmente abbia contratto il virus e quindi abbia prodotto gli anticorpi contro lo stesso. Questi test si dividono in due tipologie: rapidi e quantitativi, i primi stabiliscono tramite una goccia di sangue se la persona ha sviluppato gli anticorpi. I secondi invece, tramite un prelievo, quantificano gli anticorpi prodotti; in particolare IgM all’inizio dell’infezione e IgG quando la persona è immune al virus.
Nel mese di maggio 2020, è stata ultimata l’analisi della risposta anticorpale in 285 pazienti affetti da COVID-19. È emerso che dopo 19 giorni dalla comparsa dei sintomi, la totalità dei pazienti ha sviluppato anticorpi diretti contro il virus. Quindi si è compreso che tutti i pazienti risultati positivi hanno sviluppato gli anticorpi entro tre settimane dall’esordio dei sintomi. La comparsa dei protagonisti della risposta immunitaria umorale è stata dimostrata anche nell’analisi di 164 individui che hanno avuto contatti diretti con pazienti positivi. Di questi, il 10% è risultato positivo e dopo 30 giorni dal contatto hanno sviluppato gli anticorpi. Interessante è il fatto che le immunoglobuline sono state prodotte anche in 59 soggetti risultati negativi al tampone ma che hanno avuto contatti con pazienti infetti. Da questo studio si può valutare l’analisi sierologica come più attendibile del tampone per quantificare la reale percentuale di contagiati, benché non permetta di comprendere se il paziente sia potenzialmente positivo o meno (Burioni R, 2020).
Si può suddividere la patologia COVID-19 in tre fasi principali: il primo stadio lieve di infezione precoce, il secondo moderato con coinvolgimento polmonare e il terzo ed ultimo, grave con presenza di un’iperinfiammazione sistemica. La fase iniziale prende avvio dall’infezione da SARS-CoV-2 a cui segue un periodo di incubazione in cui il virus si moltiplica all’interno delle vie respiratorie inducendo resistenza nell’ospite. In questa fase che generalmente va dai 2 ai 7 giorni, il virus si lega al bersaglio tramite il recettore dell’enzima 2 di conversione dell’angiotensina (ACE2) largamente presente su cellule polmonari ed endotelio vascolare. Dai test diagnostici in pazienti con una sintomatologia respiratoria e sistemica, emerge una linfopenia e neutrofilia. Il trattamento consigliato nel primo stadio è un antivirale mirato a ridurre la carica del virus impedendone la replicazione e ad aiutare il sistema immunitario ad attivarsi. Nella seconda fase si conferma la malattia polmonare che in alcuni casi può svilupparsi in polmonite virale. Utilizzando tecniche di imaging toracico o la tomografia computerizzata si evidenziano infiltrati ed opacità polmonare segno che il virus ha invaso i polmoni; l’emocromo, invece, mostra un aumento della linfopenia. Nel caso in cui si verifichi ipossia, è necessario il ricovero in ospedale per la somministrazione di ossigeno ed eventualmente l’intubazione. Oltre ad una sintomatologia polmonare vi possono essere problematiche a livello cardiaco o problemi nella coagulazione. Il trattamento in questa fase prevede l’impiego di misure di supporto e di antivirali quali il remdesivir; nel caso di sovrainfezioni batteriche si possono prescrivere antibiotici quali azitromicina, cefalosporine o fluorchinolonici. Nell’ultimo stadio individuato, che si manifesta in minoranza nei pazienti, si verifica la sindrome da iperinfiammazione sistemica extra-polmonare. Le citochine quali IL-2, IL-6, IL-7, G-CSF, TNF-α, ferritina, proteina C-reattiva risultano essere elevate nei pazienti con la forma più grave della malattia che può concludersi con shock, insufficienza respiratoria e collasso cardiopolmonare. La terapia consigliata si basa su immunomodulatori, come ad esempio tocilizumab o anakinra, atti a ridurre l’infiammazione sistemica prima che questa causi la disfunzione multiorgano (Siddiqi HK et al. 2020).
Da uno studio clinico di un laboratorio cinese, nel mese di marzo 2020, è emersa un’osservazione interessante che parte dal presupposto che i linfociti T citotossici (CTL) e le cellule Natural Killer siano estremamente importanti per l’eliminazione del virus, per cui una diminuzione di queste cellule porterebbe ad una severa progressione dell’infezione virale. Gli studiosi di questo laboratorio hanno dimostrato che il numero totale delle cellule T CD8+ e NK diminuisce in seguito all’infezione da SARS-CoV-2, in associazione ad un aumento dell’espressione del recettore inibitorio NKG2A nei pazienti affetti da COVID-19. Al termine del trattamento sintomatico, però, il numero dei linfociti T e delle cellule Natural Killer risulta ripristinato, unitamente a una diminuzione dell’espressione di NKG2A. Ciò, evidenzia l’abilità del virus ad abbattere l’immunità antivirale, soprattutto all’inizio della malattia; difatti, oltre alla diminuzione delle cellule immunitarie, risulta esserci un ovvio decremento di citochine CD107a+, IFN-γ, IL-12, TNF-α e granzimi B (M. Zheng et al. 2020).
Per quanto riguarda il trattamento, invece, non esistono al momento terapie ed antivirali specifici, né vaccini che prevengano l’infezione da coronavirus. Queste terapie sono tutt’oggi oggetto di studio in tutto il mondo, dal momento che si tratta di un’emergenza mondiale. In Cina, secondo quanto riportato dall’OMS, vi sono numerose sperimentazioni cliniche che prevedono l’impiego di remdesivir (antivirale contro l’Ebola, inibitore della trascrittasi inversa), clorochina, favinapisir o di farmaci non specifici per il coronavirus già approvati per altre malattie secondo il cosiddetto riposizionamento dei farmaci.
L’Istituto Superiore di Sanità pubblica settimanalmente l’analisi sui dati epidemiologici nei pazienti deceduti risultati positivi a COVID-19 in Italia; da questi emerge che l’età media è di 79 anni, l’età mediana è di 81 anni (19 anni in più rispetto all’età media dei pazienti che hanno contratto l’infezione), il 63% è di sesso maschile e oltre il 61% dei deceduti presentava 3 o più patologie preesistenti, contro il 3,3% di pazienti con assenza di patologie pregresse. La maggior incidenza in pazienti anziani potrebbe essere dovuta al fenomeno dell’invecchiamento del sistema immunitario che coinvolge numerosi meccanismi molecolari e cellulari ma soprattutto alterazioni funzionali che spesso si manifestano con una ridotta capacità a resistere ad infezioni, a rispondere alla vaccinazione, con una maggior incidenza di cancro, autoimmunità ed infiammazione cronica di basso grado implicata nella patogenesi di aterosclerosi, morbo di Alzheimer, osteoporosi e diabete (Sadighi A, 2018). Per quanto riguarda tutte le infezioni, in adulti con più di 65 anni si hanno conseguenze più gravi rispetto ai giovani; nel caso di malattie respiratorie come l’influenza e la polmonite pneumococcica si ha una probabilità maggiore di fatalità rispetto ad adulti più giovani. Le risposte immunitarie innate ed adattive sono entrambe influenzate dall’invecchiamento anche se la risposta acquisita sembra subire maggiori cambiamenti.
L’epidemiologia nei bambini, tuttavia, è ben diversa da quella negli anziani o adulti con patologie croniche. In uno studio condotto in Cina dall’inizio dell’epidemia, sono stati considerati 2135 pazienti pediatrici la cui età media era di 7 anni e di cui il 56% era rappresentato da maschi. Dai risultati è emerso che più del 90% era asintomatico oppure presentava sintomi lievi; nei casi moderati, invece, l’esordio della malattia è stato registrato attorno il secondo giorno dall’infezione con una diminuzione graduale e costante nei giorni successivi (Yuanyuan Dong et al. 2020). In conclusione, i bambini hanno le stesse probabilità di contrarre il virus ma mostrano una prognosi molto più favorevole rispetto agli anziani.
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Ruolo della risposta immunitaria innata nell’infezione da Coronavirus SARS-CoV-2
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Informazioni tesi
Autore: | Giulia Latino |
Tipo: | Laurea I ciclo (triennale) |
Anno: | 2019-20 |
Università: | Università degli Studi dell'Insubria |
Facoltà: | Scienze Biotecnologiche |
Corso: | Biotecnologie sanitarie |
Relatore: | Lorenzo Mortara |
Lingua: | Italiano |
Num. pagine: | 24 |
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