Dalla gratuità alla grazia: esperienza del vuoto e mistica del dono in Simone Weil
Senza consolazione: la via della sofferenza “dura e pura”
«L’uomo deve forse passare (ogni volta, fino allo stato estremo?) per la prova della durata perpetua (inferno) prima di avere accesso all’eternità?» La risposta per lei è: sì, bisogna, sopra ogni altra cosa, addentrarsi pervicacemente in questa notte oscura. Simone Weil la vive come uno «stato di radicale contraddittorietà, rispetto al quale nulla va fatto per uscirne.» Non si dovrebbe nemmeno fare nulla per “entrarci”, ma semplicemente aspettare che cada questa notte su di noi e lasciare che ci devasti, finché non ne usciamo purificati (ancora una volta, si tratta di un castigo). Certo, «è necessario sforzarsi di evitare la sventura», ma, dice la Weil, lo si fa «solo affinché la sventura in cui ci s’imbatte sia perfettamente pura e perfettamente amara.» (S.W., Quaderni, vol. II, p. 245. O ancora: « Credo al valore della sofferenza nella misura in cui si fa tutto [ciò che è onesto] per evitarla. » Quaderni, vol. I, p. 109) Per questo la filosofa ci appare sempre “a caccia” di sofferenza, quella sofferenza di cui il mondo è pieno e che la sua compassione vorrebbe poter abbracciare da un’estremità all’altra (avendo preso “per corpo l’universo intero”). Per un appassionato bisogno di giustizia, rifiuta la salvezza che pure le si presenta davanti, come fece Alessandro Magno respingendo l’acqua offerta dai suoi soldati nel deserto: «ogni santo ha rifiutato l’acqua; ogni santo ha rifiutato tutta la felicità che lo avrebbe separato dalla sofferenza degli uomini… »
Impossibile, per le nostre intelligenze umane e limitate, conciliare nel pensiero la realtà del malheur in così tanti esseri innocenti che ci sono nel mondo, con l’assoluta perfezione e bontà divina; il problema del male da sempre incupisce, o porta il buio—la notte—su chi si accosta alla metafisica religiosa, Simone Weil compresa. In particolare, il suo itinerario spirituale la porta a concepire, da Solesmes in poi, la possibilità che il dolore diventi come un canale “offerto” da Dio per fare la sua conoscenza.1 Più che un canale, una vera e propria via maestra, la Via del Maestro, di quell’innocente che «ha preso le nostre infermità e si è addossato le nostre malattie.» (Matteo 6, 17, ma è la citazione di una profezia di Isaia 53, 4.) La salvezza dell’umanità passa attraverso la medesima accettazione del dolore, fino al sacrificio totale; è chiaro a Simone quel che avrebbe poi scritto Bonhoeffer nel 1944, ovvero che «il Cristo non ci aiuta in forza della sua onnipotenza, ma in forza della sua debolezza e della sua sofferenza.» Come Dio ha tollerato di subire tutte le umiliazioni e le torture nel suo corpo di uomo, così il santo, l’anti-eroe, si presenta senza difese, senza armatura, nella più pura nudità fisica e spirituale. E’ il coraggio di questa spoliazione di sé che dobbiamo chiedere al Signore, e non altro: «Se stai cercando un amore che protegga l’anima da qualsiasi ferita, devi amare qualcos’altro che non sia Dio.»
Eppure l’istinto (o meglio, per lei, la pesanteur) fa sì che l’uomo cerchi con tutti i mezzi di coprirsi, di proteggersi, di alleviare le proprie ferite; in una parola, di prendersi cura di sé. Già questo volersi sottrarre al dolore rappresenta un errore per Simone Weil, perché in ogni grande pena è contenuta una verità profonda della condizione umana. Per di più, ora, la filosofa punta anche il dito contro quei rimedi che solitamente adoperiamo per scansare le sofferenze: le consolazioni.
Quando lo sventurato cade nello sconforto più totale, non gli rimane che la speranza, ovvero il credere nella possibilità che avvenga un cambiamento: è un sogno a tenerlo in piedi, a fargli sopportare nel tempo indicibili fatiche. Un sogno: un narcotico che beve l’anima per abbandonarsi al male.2 Questo viene alimentato dall’immaginazione, che crea scenari alternativi, punti d’appoggio fittizi quando ormai si barcolla nel buio: sono immagini, sono illusioni. Nemmeno l’intelligenza, alla quale pure la filosofa ricorre immancabilmente, può venire in soccorso in questi momenti: «non bisogna spiegare la sofferenza, sarebbe consolarla. L’austera Weil si impone di rigettare tutto ciò che potrebbe rappresentare un palliativo, una troppo facile scorciatoia contro l’ineluttabile tribolazione della vita : «scartare le credenze che colmano i vuoti, che addolciscono le amarezze. Quella nell’immortalità. Quella nell’utilità dei peccati. (…) Quella nell’ordine provvidenziale degli avvenimenti. (In breve, le “consolazioni” spesso cercate nella religione)» Temendo il forte potere di suggestione che potrebbero avere su di lei tali illusorie promesse, Simone preferisce allora percorrere un cammino di fede singolare e inedito, controcorrente rispetto al pensiero cristiano; è il suo ateismo purificatore:
La religione in quanto sorgente di consolazione è un ostacolo alla vera fede: in questo senso l’ateismo è una purificazione. Devo essere atea con la parte di me stessa che non è fatta per Dio.
Questa parte, è quella che, nella sventura, aspetta di essere confortata: bisogna dirle che non c’è niente che verrà a salvarla, che non c’è modo di risparmiarle il dolore. Le consolazioni, a detta di Simone, rischiano di macchiare la sua onestà morale, l’integrità della sua anima votata alla sofferenza, perché invece di fare i conti con la realtà—che è “dura e rugosa”—la conducono lontano, in “paradisi artificiali”, nel regno di false immagini religiose, come quella del “Dio gratificante e antropomorfo.”
È necessario riuscire a rimanere sospesi nel vuoto della nostra angoscia, contemplando senza speranza l’abisso sotto di noi. Non è per niente facile: soffriamo di vertigini. Come la natura, abbiamo orrore del vuoto (l’horror vacui), non possiamo fare a meno di cercare appiglio in un qualche pensiero positivo, per esempio in un domani migliore: «Il desiderio è uno slancio del pensiero verso il futuro. Un futuro che non racchiude nulla di desiderabile è impossibile.» In questo senso la promessa escatologica del cristianesimo—di una vita eterna in Dio, per tutti—è quanto di più desiderabile, ma Simone Weil sembra non preoccuparsi dell’aldilà; ancora una volta, la sua fede è tutta incentrata non sull’attesa del ritorno del Messia, bensì sulla partecipazione alla Passione del Cristo sofferente e crocifisso. Occorre dunque che ognuno porti la sua croce, che non ha niente a che vedere con la «semplice rassegnazione alle piccole noie di ogni giorno, chiamate talvolta croci per un abuso di linguaggio pressoché sacrilego.» La sua croce, fardello esistenziale, sforzo immane, consiste nel realizzare quel progetto di autoannientamento dell’io che è la decreazione; non ha dunque molto senso parlare di salvezza nella metafisica weiliana, se la perfezione si raggiunge non avendo più niente da salvare…
Questa scelta preferenziale per il momento della sofferenza rispetto alla prospettiva del riscatto, la si vede anche nel peccato d’invidia che commette ogni volta che pensa alla crocifissione di Cristo, o alla “felix culpa” del buon ladrone: «essersi trovato al fianco di Cristo, nella sua stessa situazione, durante la crocifissione, mi sembra un privilegio molto più invidiabile dell’essergli alla sua destra nella sua gloria.»
Questo brano è tratto dalla tesi:
Dalla gratuità alla grazia: esperienza del vuoto e mistica del dono in Simone Weil
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Informazioni tesi
Autore: | Maria Livia Brauzzi |
Tipo: | Laurea II ciclo (magistrale o specialistica) |
Anno: | 2006-07 |
Università: | Università degli Studi Roma Tre |
Facoltà: | Lettere e Filosofia |
Corso: | Filosofia teoretica, morale, politica ed estetica |
Relatore: | Francesca Brezzi |
Lingua: | Italiano |
Num. pagine: | 83 |
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