Il rischio burnout nella professione infermieristica
Prevenire la sindrome del burnout negli infermieri: strategie e livelli di intervento
C’è un paradosso di fondo nel tentativo di definire le strategie di prevenzione del burnout: a fronte di tanta evidenza, le iniziative volte a ridimensionare il fenomeno appaiono tuttora scarse e inconsistenti.
Si è infatti concordi sull’entità del fenomeno, sulla necessità di contenerlo e prevenirlo, sulle conseguenze negative che comporta per l’utenza e per l’organizzazione, sull’importanza di favorire la gestione ottimale delle risorse umane, ma si fa ben poco sul piano applicativo e risultano ancora occasionali i progetti operativi in tal senso.
Si presta scarsa attenzione alla formazione del personale, al suo inserimento nella realtà lavorativa, al monitoraggio dell’attività. Risultano ancora inadeguate - talvolta inesistenti— le risorse economiche destinate alla ridefinizione delle strategie organizzative alla luce delle recenti acquisizioni in materia di gestione aziendale.
E’ anche vero che non si può fermare tutto e ricominciare daccapo, non si può bloccare il Sistema Sanitario Nazionale né qualsiasi altra azienda che operi nel settore delle helping professions, e non è immaginabile che si possano cambiare meccanismi di gestione oramai consolidati in tempi brevi; si può tuttavia incominciare a introdurre, gradualmente, meccanismi diretti alla valorizzazione delle risorse già esistenti, definendo chiaramente il percorso da seguire.
Nella tabella 1.1 sono elencate le principali strategie per la prevenzione del burnout, alcune richiedono tempi di attuazione molto lunghi e l’impegno e il coordinamento tra strutture organizzative su livelli spesso distanti tra loro come, per esempio, l’università e le aziende sanitarie. Questa distanza determina uno scollamento tra la formazione teorica del personale e il suo inserimento nel mondo del lavoro; molti studi hanno evidenziato che i primi anni della carriera professionale sono quelli a maggior rischio di burnout.
Evidentemente, il contatto con la realtà lavorativa determina un ridimensionamento delle aspettative e una disillusione rispetto a quanto ci si aspettava dalla professione. Con il tempo si impara a convivere con questa realtà, fino a diventare meno sensibili alle sollecitazioni e più indifferenti rispetto a reali possibilità di cambiamento.
Ciò giustifica anche l’atteggiamento di inerzia professionale che si osserva dopo un certo numero di anni di servizio; all’entusiasmo iniziale segue una fase di completa stasi in cui l’attività lavorativa diventa routine, senza emozioni e senza entusiasmo.
Il lavoro diventa ordinarietà e sotto il profilo professionale vengono a mancare la motivazione e il desiderio di crescita; le prestazioni si attestano a un certo livello che rimane inalterato per anni, anche fino al pensionamento. In questa situazione non si avverte alcun desiderio di crescita professionale, nessuno stimolo o desiderio di verifica dell’operato svolto o di accedere a corsi di aggiornamento professionale, come testimoniato dall’esame dell’attività svolta e/o dall’attività scientifica a essa connessa.
Per questi motivi, gli anni della formazione appaiono determinanti ai fini dello svolgimento della professione futura e devono prevedere anche l’insegnamento di una metodologia di lavoro mirata a definire il ruolo professionale, con tutti i suoi vantaggi e svantaggi.
Questo brano è tratto dalla tesi:
Il rischio burnout nella professione infermieristica
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Informazioni tesi
Autore: | Angelo Laghezza |
Tipo: | Laurea I ciclo (triennale) |
Anno: | 2010-11 |
Università: | Università degli Studi di Bari |
Facoltà: | Medicina e Chirurgia |
Corso: | Infermieristica |
Relatore: | Rocco Giuseppe Cazzato |
Lingua: | Italiano |
Num. pagine: | 45 |
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