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Tra le nicchie del tempo e dello spazio: Mariangela Gualtieri e la relazione tra linguaggio poetico e scenico nel Teatro Valdoca

Poesia nello spazio

La scrittura della Gualtieri è generosa, aperta, ariosa e le sue parole, come icone sonore capaci “di esprimere urgenze e di tracciare connotati e confini contemporanei alla bellezza”, mostrano il suo rapporto con il mondo. D'altra parte, però, c'è la consapevolezza che, se esse venissero gettate inconsciamente sul foglio, potrebbero sprigionare “qualcosa di avido”. Lei stessa ci spiega che, questo 'qualcosa'

oltreché essere avido, non funziona, produce un'autocombustione che brucia ciò che dovrebbe finire sul foglio. Dopo pochi giorni non rimane niente di quella meraviglia che hai sentito e volevi fissare: le parole ti hanno tradito. Allora io ho imparato ad essere più umile, più povera, a non voler sempre prendere, ed è arrivata la certezza che quel forte sentire che tutti conosciamo deve decantare, si mette da qualche parte e viene fuori da solo quando è ora, se è nel tuo destino che venga fuori.

Per evitare di cadere in quest'avidità, allora, la Gualtieri propone una pratica d'altri tempi, quella dell'ascolto: bisogna, cioè, diventare esperti del silenzio che precede e prosegue il suono. Infatti, sia lei che Ronconi percepiscono la poesia come susseguirsi di silenzio-parola-silenzio, così come la musica è da intendersi come pausa-suono-pausa. È solo dopo aver praticato e abitato quel silenzio, che la parola può restituire le giuste sfumature di suono sulla pagina. Solo così, essa diventa o, meglio, torna ad essere entità fisica, restituita alla dimensione del canto e della musica: diventa quindi 'poesia nello spazio'.

La poesia per il teatro nasce, insomma, proprio dalla necessità sempre più urgente di un corrispettivo visivo di quella parola spesso desueta, dialettale, inventata, e sempre detta nel giro di forze del presente. Essa è perfettamente calzante per i corpi che devono pronunciarla, poiché scritta appositamente per loro a ridosso delle prove. Gli attori, dunque, non possono venire sostituiti, perché quelle parole, movenze e attitudini sono state create esattamente per loro, e, se messe in scena da qualcun altro, non avrebbero la stessa rilevanza.

La partecipazione di figure come quella della Gualtieri all'evento scenico tramite il mezzo della parola è di tale importanza che Gerardo Guccini parla di “attore testuale”:

La composizione del testo si nutre (…) delle difficoltà che affronta; e mai la parola scritta è apparsa così compiutamente teatrale come quando ha dovuto lottare per conquistare al dramma concreti spazi d'esistenza.

Si delinea dunque una scrittura “appesa, sospesa, dipinta” che, diventa vero e proprio elemento di scena: pur sempre, però, “estraniata, giocata su alterazione artificiale di più registri”.
La pagina prende ora le sembianze di un luogo tombale che addormenta il potere delle parole, per cui, perché esse non muoiano, è necessario pensarle sempre in relazione agli attori. Si tratta comunque di un'esigenza estrema, una questione vitale. Fare drammaturgia significa rispondere a un ordine categorico, a una necessità violenta: non è rifugio, ma momento di battaglia. Ora, calcare la scena significa incarnare la parola scritta, darle voce, prescindendo da qualsiasi caratterizzazione sul piano tecnico-formale.

Attraverso la struttura architettonica del verso, lo spartito lirico, il mèlos, la parola diventa dunque materia vocale. A mettere in scena questa parola-suono c'è il cosiddetto 'interprete', termine preferito a quello di 'performer' (colui che esegue quanto gli è stato imposto), perché sottolinea l'attività del tradurre un messaggio da un linguaggio all'altro.

La relazione che la poesia instaura con le scelte registiche è di profonda e sentita riverenza: “il rapporto è molto chiaro per me: io servo un'altra scrittura, che è quella registica, e la servo con un mezzo, la parola (...). E poi accetto di non capire tutto del percorso di Cesare e di fidarmi di lui”. Inoltre, dal momento che il lavoro del regista non prevede un progetto di partenza, comprendere quale sia la sua predisposizione nei confronti di uno spettacolo è molto difficile. Seguendo i laboratori che Ronconi conduce dal '94 in poi, però, la drammaturga riesce a capire qual è la via che il regista vuole intraprendere, il suo “demone” in quel momento, ed è proprio a partire da quella vibrazione che scrive.

Fin da principio – racconta la Gualtieri – la mia scrittura era sostanziata da una parte che nasceva per proprio conto e quando voleva, e da una parte che invece veniva scritta durante le prove. Questa seconda componente era in qualche modo suggerita dalla scena, da ciò che accadeva, dalla particolarità degli attori e dai suggerimenti della regia.

C'è, insomma, un profondo rispetto nei confronti di queste due “follie” che si accostano l'una all'altra, anche se poi la Gualtieri riconosce continuamente la sua riverenza nei confronti del regista:

La scrittura scenica, che è compito della regia, comprende tutti gli elementi della scena ed il testo è, in questo senso, solo un elemento fra gli altri. Quando porto in scena i testi ho l'impressione di consegnare un cadavere, chiedo alla regia di resuscitarlo.

Il regista, dunque, come fosse uno sciamano, riprendendo l'idea di teatro come rito, deve ridare vita, con i suoi linguaggi e i suoi strumenti, alla parola, che senza il suo aiuto è praticamente corpo morto.

Questo brano è tratto dalla tesi:

Tra le nicchie del tempo e dello spazio: Mariangela Gualtieri e la relazione tra linguaggio poetico e scenico nel Teatro Valdoca

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Informazioni tesi

  Autore: Sofia Longhini
  Tipo: Laurea I ciclo (triennale)
  Anno: 2017-18
  Università: Università degli Studi di Bologna
  Facoltà: Lettere
  Corso: Lettere
  Relatore: Gerardo Guccini
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 69

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Parole chiave

teatro
letteratura italiana
poesia
ronconi
teatro valdoca
mariangela gualtieri
milo de angelis

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