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''The Beautiful Country'' - Le inchieste di “Economist” sull’Italia 1964-2011

Ma la vita è ancora dolce in Italia?

“L’Italia, per quanto sporca sia la sua politica e traballante la sua economia, è ancora, per abitanti e visitatori, uno dei più deliziosi paesi al mondo. Il suo cocktail di bellezze naturali, meraviglie artistiche, patrimonio culturale e clima piacevole non è secondo a nessuno; la gente ha il dono di affascinare e far sorridere, di godersi e far godere agli altri la vita. Pochi hanno un senso dello stile e della moda tanto spiccato, una cucina e una cantina così sontuose, e una tradizione tanto forte nel conciliare duro lavoro e piacere. Ma allora come mai l’Italia è così piena di guai?”
(What a lovely odd place! 7 July 2001)

Non è forse un caso che il giornale, nel luglio del 2001, proprio alla vigilia del vertice del G8 che di lì a pochi giorni si sarebbe tenuto a Genova, abbia voluto rivolgere lo sguardo sul paese che era in procinto di ospitarlo.
Una risposta univoca alla domanda che dà il titolo a questo paragrafo, “Economist” non la fornisce, né potrebbe, sia perché le dinamiche sociali di un popolo sono fenomeni estremamente complessi, sia perché, a seconda della fase storica ed economica che un paese attraversa nel corso dei decenni, si alternano miti schiarite a pagine assai amare. Nel complesso, quello italiano è un piatto agrodolce. Vediamo per prima cosa quali sono gli ingredienti che piacciono al giornale, che, nella migliore tradizione inglese, a varie riprese nel corso del tempo non si sottrae al fascino del pittoresco:

“la campagna è meravigliosa, le città storiche splendide, i tesori artistici incredibili, e il cibo e il vino più meravigliosi che mai. In base alla maggior parte degli indicatori gli italiani sono benestanti, vivono a lungo e le famiglie sono molto coese. L’ubriachezza molesta che rende sgradevole il centro città, in Italia, grazie a dio, è rara. È vero, il traffico è caotico, e posti come Venezia e Firenze sono invasi dai turisti, ma basta andarci fuori stagione, o anche soltanto uscire dai sentieri più battuti, per trascorrere un soggiorno più piacevole qui che in qualsiasi altro luogo”.
(Addio, dolce vita, “The Economist”, 26 November 2005.)

Nel 1990 il giornale sottolinea con sicura ammirazione come molti aspetti della vita italiana non solo funzionino, ma siano piacevoli per italiani e stranieri. In pochi paesi la gente vive con così grande gusto (in italiano). In nessun altro luogo la mano dell’uomo ha lasciato un’eredità di tale bellezza. In tanti campi della civilizzazione l’Italia è senza rivali; quarant’anni prima zoppicava in due soltanto: industria e politica, che, bisogna ammetterlo, sono abbastanza importanti; negli ultimi decenni c’è stato il miracolo dell’industria, la storia dei decenni a venire avrà un’impronta politica: riuscirà l’Italia a scrollarsi di dosso “la sua terribile eredità”, il ricordo del fascismo e con esso il bisogno di coalizioni, “stabilendo un sistema di governo moderno”?
“Economist” mette poi in luce aspetti degli italiani che sono ambivalenti, e giocano ad un tempo il ruolo di pregi e di difetti, come ad esempio il valore dell’individualismo senza confini, che è sempre stato ad un tempo una forza e un punto debole; una forza, perché ha permesso la diversificazione della cultura nelle città stato fiorite nel rinascimento e l’inventiva degli imprenditori del dopoguerra; punto debole, perché di rado gli italiani sono stati in grado di unire le forze per resistere ai forti tentativi di dominarli.
Altre caratteristiche della nostra società sono di marca decisamente negativa. Al primo posto c’è il nostro apparato burocratico, che nel corso degli anni non manca di attirare, a ragion veduta, gli strali del giornale.
All’interno dell’inserto speciale del 1964 compare una vignetta, ripresa dal settimanale italiano “Il Mondo”; raffigura un usciere, che entra in un ufficio con un caffè sul vassoio. Un impiegato dall’aria assonnata, seduto alla scrivania, lo apostrofa così: “Niente caffè, sennò non dormo”. Il giornale propone, sempre con la amata formula dubitativa/attenuativa, Spring-Clean for Bureaucrats?. Lo scontento è generalizzato, sia da parte degli statali, sia da parte della pubblica opinione, che dopo il disastro del Vajont punta il dito sulle responsabilità degli amministratori.
Ancora una volta si fanno risalire i problemi al processo di unificazione, e all’applicazione del modello centralizzato piemontese di derivazione francese. Poteva andare bene, per quanto inefficiente, in uno stato agricolo e stabile. La pubblica amministrazione, soggetto invisibile, era ignorata. L’Italia è cambiata. Si invoca una riforma. Anche dei ritualismi autoreferenziali, dei titoli altisonanti, della lentezza paralizzante, che non piacciono ai cittadino. Gli impiegati pubblici sono inamovibili, sottopagati eppure costosi; lavorano 6 ore al giorno. Il lavoro “gira” grazie a una/due persone in gamba in ciascun ufficio. Il 90% dei dipendenti pubblici proviene dal sud: questo lavoro è lo sbocco naturale per le persone istruite provenienti dalle aree depresse. La fonte primaria dei problemi politici dell’Italia è che manca il senso dello stato, l’idea di far parte di una società politica, di essere, insomma, italiani. Vale anche per i più immediati rappresentanti dello stato.
Colpisce, a distanza di oltre 45 anni, quanto questo giudizio sia ancora così attuale.
La pubblica amministrazione, siano i ministeri a Roma o i Carabinieri a Milano, è dominata dai meridionali, che provengono da una parte del paese dove la tradizione di governo è spagnola; mentre francesi e austriaci, pur con le loro colpe, hanno lasciato al nord una forma di governo relativamente efficiente, gli spagnoli hanno invece trasmesso al sud “una cultura di corruzione e mañana”. Su questo gli italiani hanno innestato le loro caratteristiche barocche: primo, la passione per la legge e il legalismo (ci sono più avvocati a Roma che in tutta la Francia); secondo, la convinzione che sia sufficiente promulgare le leggi, senza il bisogno di metterle in uso. In questo contesto, i funzionari pubblici sono come sacerdoti, il loro lavoro è per tutta la vita, il loro ruolo è quello di pronunciarsi, “e all’inferno il senso del tempo”; terzo, con il perpetuo via vai dei governi, perché darsi la pena di mettere in atto le volontà dei tuoi ultimi padroni politici (assumendo, magari sbagliando, che lo abbiano reso manifesto), se nel giro di un anno ci saranno altri? C’è poi la politicizzazione della pubblica amministrazione, e il fatto che i dipendenti pubblici non si vedono tanto a lavorare per il governo, lo stato o per la cittadinanza (per la cittadinanza poi, men che meno), perché spesso devono il posto che occupano ai politici o agli agganci di tipo politico. Anche le promozioni arrivano tramite questo canale, e non grazie alla devozione per il bene comune. Ecco perché le riforme sono di difficile attuazione.

Questo brano è tratto dalla tesi:

''The Beautiful Country'' - Le inchieste di “Economist” sull’Italia 1964-2011

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Informazioni tesi

  Autore: Elisabetta Ferrando
  Tipo: Tesi di Laurea Magistrale
  Anno: 2010-11
  Università: Università degli studi di Genova
  Facoltà: Scienze Politiche
  Corso: Informazione ed Editoria
  Relatore: Marina Milan
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 168

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