Responsabilità da reato degli enti: quale natura e quali implicazioni?
Le vicende modificative dell’ente
La questione delle vicende modificative dell’ente attiene alla possibilità che l’ente risultante da operazioni di modifica della sua struttura o da fusione o scissione possa essere ritenuto responsabile dell’illecito commesso dall’ente originario. La disciplina delle vicende modificative dell’ente è contenuta negli artt. 27-33 d.lgs. 231/01 e ad oggi è certamente uno degli istituti più problematici del decreto, nonché un elemento che, secondo i sostenitori della tesi amministrativistica, denoterebbe la natura senz’altro non penale della responsabilità degli enti.
Non vi è dubbio che se «L’imputato persona fisica conserva inalterata la propria individualità nel corso dell’intero procedimento, potendo casomai sopravvenire la sua morte o l’incapacità» e la «struttura soggettiva dell’uomo è sempre identica a sé stessa per tutto l’arco della sua vita» per l’ente le cose vanno diversamente, e per questo è stata prevista una regolamentazione ad hoc che non sembra passibile di paragoni rispetto alle vicende della persona fisica.
Gli istituti della trasformazione, della fusione e della scissione paiono seguire, per quanto concerne il trasferimento della sanzione pecuniaria, regole di natura civilistica.
In sostanza, a titolo generalissimo, già da una prima lettura degli articoli dedicati alle “Vicende modificative degli enti” si desume che le sanzioni (sia quelle pecuniarie che quelle interdittive) possono essere comminate anche a enti apparentemente diversi da quelli originariamente responsabili.
Per quanto questa diversità possa attestarsi, lo vedremo fra poco, soprattutto sul dato formale, appare difficile conciliare la disciplina in questione col principio minimo di personalità della sanzione inteso, in questo caso, come «divieto di perseguire soggetti estranei all’illecito».
La diatriba attiene al piano ontologico, cioè alla possibilità o meno di considerare il “nuovo” ente modo collegato (o invariato) rispetto a quello originario, ma anche e soprattutto ad una schietta questione di politica criminale, rispetto alle quali il legislatore delegato pareva avere le mani legate.
Passando in rassegna le varie ipotesi previste nel capitolo dedicato alle vicende modificative, si può innanzitutto osservare come sia aproblematica la scelta del legislatore di considerare sostanzialmente identico rispetto all’ente originario il soggetto giuridico che risulti dalla trasformazione.
Laconicamente, il legislatore delegato ha previsto all’art. 28 d.lgs. 231/01 che «Nel caso di trasformazione dell'ente, resta ferma la responsabilità per i reati commessi anteriormente alla data in cui la trasformazione ha avuto effetto».
In effetti, la trasformazione consiste nel mutamento della forma giuridica e dell’organizzazione della società. Non vi è dubbio alcuno che la sostanza dell’ente, in questo caso, rimanga la medesima, quindi si spiega facilmente la piena continuità della responsabilità fra l’ente precedente alla trasformazione e quello che ne risulta, continuità che risulta scontata «anche sul piano ‘extrapenale’»: medesimo rimane l’ente, medesima e intonsa resta la responsabilità per gli illeciti commessi prima della trasformazione.
Più problematiche le questioni che si affacciano nella disciplina della fusione, regolata dall’art. 29 d.lgs. 231/01. Questa disposizione contiene quello che a prima vista appare un cumulo di responsabilità: prevede infatti la norma che «Nel caso di fusione, anche per incorporazione, l'ente che ne risulta risponde dei reati dei quali erano responsabili gli enti partecipanti alla fusione».
Il rimando alla fusione per incorporazione fa chiaramente riferimento al diritto societario, nel quale si effettua la distinzione fra la fusione per unione (laddove due enti si uniscano formandone uno nuovo) ovvero per incorporazione (laddove una società incorpori una o più società).
Il caso più problematico è senza dubbio il primo, dato che la dottrina è ancora oggi portata a ritenere che la fusione per unione comporti l’estinzione delle società, che confluiscono in un ente del tutto nuovo. Solamente la fusione per incorporazione, da un punto di vista logico, permetterebbe di vedere ancora una continuità fra l’ente originario e l’ente risultante dalla modificazione.
La norma, in ogni caso, suscita nell’osservatore una sensazione di disagio dovuta alla constatazione che almeno un ente incolpevole, coinvolto nella fusione, debba rispondere delle conseguenze dell’illecito dell’ente colpevole.
Il legislatore non ha mancato di modulare la disciplina della fusione in modo da ridurre, sempre nei limiti del possibile, l’impatto delle sanzioni sull’ente incolpevole, sia nel caso della fusione che nel caso della scissione, che ci apprestiamo ad analizzare.
Se la fusione avviene nel corso del giudizio, l’ente può richiedere subito che non vengano comminate sanzioni interdittive, adottando tutte le condotte dell’articolo 17 d.lgs. 231/01, mentre al termine del giudizio, l’ente potrà invece richiedere la conversione delle sanzioni interdittive in sanzioni pecuniarie; senza contare che, se la fusione è avvenuta prima del termine del giudizio, «il giudice, nella commisurazione della sanzione pecuniaria a norma dell'articolo 11, comma 2, tiene conto delle condizioni economiche e patrimoniali dell'ente originariamente responsabile».
La disciplina della scissione si prospetta come la più complessa.
In primo luogo, la scissione può essere totale, laddove l’intero patrimonio venga assegnato a due o più società (venendo così meno la società originaria), o parziale, laddove solamente una parte del patrimonio della società venga attribuito ad uno o più enti beneficiari. Si può quindi osservare che in quest’ultimo caso, una porzione della società originaria sopravvive, anche se il patrimonio risulta diminuito.
Nel caso di scissione parziale, la società scissa rimane responsabile per tutti gli illeciti amministrativi verificatosi prima della data della scissione ai sensi del comma 1 dell’art. 30 d.lgs. 231/01; sotto questo punto di vista, non si verifica alcuna tensione col principio di personalità della responsabilità, dato che non si è creata alcuna discontinuità fra l’ente in questione e quello originario.
Inoltre le sanzioni interdittive, in entrambi i casi di scissione, restano applicate al ramo d’attività nel quale si è verificato il reato-presupposto, come si desume dall’art. 30 c. 3 d.lgs. 231/01.
La mera recezione del ramo d’attività dove si è verificato il reato comporta quindi che l’applicazione delle sanzioni interdittive segua quest’ultimo, anche all’interno della società beneficiaria, comportando un aggravio della sua responsabilità.
Il continuum esistente fra la società originaria e la beneficiaria giustifica anche la disposizione in forza della quale gli enti che risultano dalla scissione, sia essa totale o parziale, sono «solidalmente obbligati al pagamento delle sanzioni pecuniarie dovute dall'ente scisso per i reati commessi anteriormente alla data dalla quale la scissione ha avuto effetto». Una disposizione di per sé non problematica se non per la parte nella quale prevede che «L’obbligo è limitato al valore effettivo del patrimonio netto trasferito al singolo ente, salvo che si tratti di ente al quale è stato trasferito, anche in parte il ramo di attività nell'ambito del quale è stato commesso il reato».
L’ente che eredita il ramo malato della società originaria, quello nel quale si è verificato l’illecito, viene quindi considerato come maggiormente pericoloso e di conseguenza non vi sono limitazioni per esso rispetto al pagamento della sanzione pecuniaria. Anche per l’ipotesi della scissione, come per la fusione, è possibile per l’ente beneficiario richiedere la conversione delle sanzioni interdittive in pecuniarie.
Non di meno, assume rilievo rispetto alla disciplina delle vicende modificative anche l’istituto della reiterazione contenuto nell’art. 32 d.lgs. 231/01. L’articolo in questione permette al giudice di ravvisare la reiterazione laddove l’ente risultante dalla fusione, o beneficiario della scissione, sia responsabile di un illecito amministrativo. Il giudice può quindi – valutando sia la «natura delle violazioni e dell'attività nell'ambito della quale sono state commesse nonché delle caratteristiche della fusione o della scissione» – ritenere che, rispetto ai reati commessi nell’ambito dell’ente originario, sussista un’ipotesi di recidiva.
In sostanza l’organo giudicante è «chiamato a verificare se vi sia concretamente un fil rouge tra vecchie e nuove violazioni, idoneo a legittimare misure repressive già severe di fronte alla ‘pervicacia’ dell’ente», e l’ipotesi di reiterazione – ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 32 d.lgs. 231/01 – può essere altresì ravvisata nei confronti dell’ente beneficiario della scissione, se nella sua compagine è stato trasferito il ramo d’attività nel quale è stato commesso l’illecito per il quale è già intervenuta sentenza di condanna in capo all’ente scisso.
Nel complesso, la disciplina della scissione e della fusione ha posto il legislatore di fronte al bisogno di contemperare esigenze molto diverse che nascono dalla capacità, tutta dell’ente, di mutare forma e struttura; essa è il risultato di un compromesso necessario fra la necessità di evitare che l’intera disciplina della responsabilità degli enti possa divenire, nella pratica, un nulla di fatto, esponendosi chiaramente a modificazioni dallo scopo elusivo, e la necessità di non penalizzare eccessivamente gli enti che procedano a modificazioni della loro struttura senza il summenzionato scopo.
Ritornando alle questioni iniziali che vengono in gioco in relazione alle vicende modificative dell’ente, vale a dire quella ontologica e quella relativa alla politica criminale scelta dal legislatore, sotto il primo punto di vista è necessario sganciarsi dalla concezione di “identità” che si utilizza come metro di misura per la persona fisica.
Siamo infatti nel campo dei soggetti di diritto meta-individuali, campo che richiede – al di là di facili antropomorfismi – che si adottino delle categorie diverse da quelle utilizzate per le persone umane. Così, quando si parla di identità dell’ente collettivo, si fa riferimento alla sua dimensione economico-patrimoniale, alla sua vocazione individuale, a quel continuum di natura economica (e non solo) che lo caratterizza e lo rende quell’ente; in definitiva, alla sua «volontà sociale». Insomma, se la continuità economica, gestionale ed imprenditoriale giustifica il “rimanere sé” dell’ente a fronte di queste modificazioni, allora solamente delle trasformazioni effettivamente incidenti sulla struttura del soggetto collettivo possono comportare, se proprio non ci si vuole distaccare da una metafora naturalistica, la morte dell’ente.
In ogni caso, non insensibile alle tensioni che la disciplina crea rispetto al principio di personalità della responsabilità, il legislatore ha mostrato una certa attenzione anche verso questo profilo, sia per quanto concerne la traslazione delle sanzioni interdittive, che possono essere convertite in pecuniarie, sia per quanto concerne la commisurazione della sanzione pecuniaria per la quale si tiene conto delle condizioni dell’ente originario.
Questo brano è tratto dalla tesi:
Responsabilità da reato degli enti: quale natura e quali implicazioni?
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Informazioni tesi
Autore: | Mariagrazia Roversi |
Tipo: | Tesi di Laurea Magistrale |
Anno: | 2017-18 |
Università: | Università degli Studi di Brescia |
Facoltà: | Giurisprudenza |
Corso: | Giurisprudenza |
Relatore: | Hervé Belluta |
Lingua: | Italiano |
Num. pagine: | 192 |
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