Il rapporto di lavoro del calciatore professionista
Le norme FIGC sulla tutela del campionato nazionale e il divieto di discriminazione
Da un lato abbiamo i trattati comunitari che affermano il principio della libera circolazione dei lavoratori e vietano intese restrittive della concorrenza, dall’altro le norme nazionali e internazionali che vietano sì discriminazioni fondate sulla razza e sulla nazionalità, ma nel contempo tutelano e disciplinano il potere delle autorità pubbliche di limitare gli ingressi di lavoratori stranieri attraverso un’idonea programmazione dei flussi di ingresso.
La FIGC (Federazione Italiana Gioco Calcio) temeva (e teme tutt’ora) che una presenza massiccia di giocatori stranieri nel campionato italiano potesse arrecare un danno ai vivai giovanili e, di conseguenza, una diminuzione della competitività della Nazionale italiana: si tratta, pertanto, di motivazioni di carattere non giuridico e occorre dire che la cittadinanza è estranea alla ragione sportiva, dato che le squadre rappresentano la città non per particolari vincoli d’origine dei singoli atleti.
Già la Bossi-Fini, di riforma al decreto Turco- Napolitano nel 1998, ha posto limiti al flusso di atleti stranieri nei nostri campionati, ad esempio fissando un tesso massimo annuo di tesseramento dei calciatori extracomunitari (uno all’anno dopo averne ceduto un altro all’estero). L’unica deroga era concessa alle società neopromosse dalla Serie B che non abbiano in rosa calciatori extracomunitari: queste potevano tesserarne al massimo tre.
In questo modo si voleva tutelare l’identità del calcio nazionale, ma senza violare i diritti sulla libera circolazione dei lavoratori. Il 4 aprile 2001 diversi calciatori extracomunitari, tesserati per alcune società di Serie A, a volte anche assistiti dalle medesime società, si sono rivolti alla Corte federale della FIGC chiedendo l’annullamento dell’art. 40, 7° comma delle norme organizzative interne federali (NOIF). Essi ritenevano che tale articolo violerebbe i diritti dei lavoratori extracomunitari e sarebbe in contrasto sia con la legislazione in materia di condizione giuridica dello straniero sia con la normativa di riforma dell’organizzazione sportiva italiana.
La corte federale, in data 4 maggio 2001, si pronuncia nel merito pervenendo a due conclusioni: dichiarò illegittima (con conseguente annullamento) la norma federale che prevedeva il limite del numero dei giocatori extracomunitari che possono essere schierati in campo; inoltre salvaguardò la stessa norma nel punto in cui pone un vincolo numerico al tesseramento dei calciatori extracomunitari.
Nella decisione della corte è significativo il fatto che essa non tenti di far leva sull’argomento fondato sull’autonomia dell’ordinamento sportivo rispetto all’ordinamento generale, internazionale, comunitario o nazionale. La decisione dell’organo di giustizia sportiva assume una notevole importanza, inoltre, da un punto di vista processuale, per la protezione accordata ai diritti fondamentali e, da un punto di vista sostanziale, per la complessa interpretazione della normativa statale in materia d’immigrazione e condizione giuridica dello straniero e dei suoi effetti nell’ambito dell’ordinamento sportivo.
Tale pronuncia della giustizia sportiva rappresenta, infatti, il primo caso di applicazione della nuova previsione introdotta dallo statuto FIGC nel 2000: “ogni tesserato od affiliato alla FIGC può ricorrere alla corte federale per la tutela dei diritti fondamentali personali o associativi che non trovino altri strumenti di garanzia nell’ordinamento federale”
Questo brano è tratto dalla tesi:
Il rapporto di lavoro del calciatore professionista
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Informazioni tesi
Autore: | Emanuele Cippone |
Tipo: | Tesi di Laurea Magistrale |
Anno: | 2009-10 |
Università: | Università degli Studi di Bari |
Facoltà: | Giurisprudenza |
Corso: | Magistrale |
Relatore: | Gaetanto Veneto |
Lingua: | Italiano |
Num. pagine: | 134 |
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