Le donne nella rete di ''Cosa Nostra''.
Le Donne in lotta per la legalità: le testimoni e le “pentite” (o collaboratrici di giustizia)
Preliminarmente, occorre individuare le differenze che concernono rispettivamente i profili dei pentiti e dei testimoni nelle indagini di giustizia.
«I pentiti sono quelle persone che, interni all’associazione mafiosa, hanno commesso numerosi reati ma, una volta in processati ed incarcerati, decidono di collaborare con le forze armate e, pertanto, si definiscono anche collaboratori di giustizia».
Viceversa, un testimone, di norma, non ha commesso alcun tipo di reato ed è estraneo all’organizzazione mafiosa: eppure, decide di mettere a disposizioni degli inquirenti informazioni preziose, in merito a fatti accaduti e dei quali può diventare un testimone chiave per far luce su indagini di carattere mafioso.
Molteplici possono essere le ragioni che si celano dietro a confessioni e/o rivelazioni di pentiti e testimoni: talvolta, i pentiti hanno subìto la perdita uno o più familiari, per cui sperano di ottenere giustizia attraverso le vie giudiziarie.
Più di frequente, il pentito, dopo un periodo di isolamento in carceri di massima sicurezza, intende patteggiare la propria condanna definitiva, collaborando con la Polizia e coadiuvando le indagini di Stato. Di norma, la scelta di cooperare con la giustizia è alquanto travagliata, piena di ansie e tormenti, soprattutto quando sussistono legami parentali che s’intrecciano a “doppio filo” con altrettanti vincoli mafiosi.
Tuttavia, di frequente, durante i processi per mafia, numerose sono le deposizioni di teste “donne” che mettono in atto i seguenti modelli motivazionali:
1) modello vendicativo: si tratta di una scelta che si colloca in continuità con il contesto di provenienza delle donne e consiste nell’applicare il codice d’onore dei mafiosi, attuando la vendetta dei propri cari attraverso le vie della giustizia pubblica;
2) modello difensivo: in questo caso, le donne prendono la decisione di collaborare con la giustizia al fine di proteggere i propri figli da eventuali rivendicazioni mafiose di altri gruppi criminali.
Tuttavia, questi modelli non sono in grado di mettere in ordine la complessità di episodi di donne collaboratrici di giustizia: in realtà, sono molto più numerose le motivazioni che spingono le donne in tale direzione.
Nondimeno, Siebert ha rilevato come le donne testimoni preferiscano optare «per la scelta della vita piuttosto che piegarsi ai dettami della mafia-morte».
Negli ultimi decenni, attraverso le testimonianze di tante collaboratrici di giustizia, è stato possibile ricostruire le strutture gerarchizzate di Cosa Nostra e ciò ha consentito agli inquirenti di scoprire gli obiettivi dei malavitosi, di smascherarne le strategie, di risalire ai mandanti in circostanze segnate da delitti irrisolti: in sostanza, queste donne hanno permesso l’arresto di boss mafiosi e il sequestro e la confisca di patrimoni immensi, accumulati illecitamente.
Di norma, un pentito, che decide di intraprendere la sua cooperazione con lo Stato, viola una regola fondamentale di Cosa Nostra, ovvero, infrange la barriera dell’omertà, garanzia della sopravvivenza stessa dell’organizzazione mafiosa.
Tali collaboratori di giustizia si macchiano di “infamia”, agli occhi del mondo mafioso, e sono colpiti frequentemente da vendette trasversali e spietati attentati.
Di conseguenza, lo Stato assicura la tutela di coloro che decidono di cooperare con la giustizia: di fatto, i collaboratori vengono inseriti in specifici programmi di protezione che, introdotti in Italia con la legge del 15 Marzo 1991 n. 82., garantiscono loro un possibile reinserimento nel contesto sociale e lavorativo, attraverso l’assegnazione di una nuova identità ed il trasferimento in località ignote.
In seguito agli attentati dei giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, lo Stato italiano ha varato nuove leggi per innalzare il livello di protezione dei collaboratori, come la legge 13 Febbraio 2001 n. 45: quest’ultima, inoltre, ha stabilito innanzitutto una formale e netta distinzione tra collaboratori e testimoni di giustizia.
«Da un po’ di anni è cresciuto il ruolo delle donne tanto dentro l’organizzazione mafiosa che nella lotta contro la mafia, perché è cresciuto il loro ruolo nella società».
Pertanto, le donne rivestono un ruolo di primo piano nella lotta contro la mafia: un esempio lampante è il ruolo attivo di Anna Puglisi nella società civile palermitana.
Questo impegno viene portato avanti anche durante i processi di mafia durante i quali, la presenza di donne come Anna Puglisi, costituiva un punto di riferimento per tutte coloro che volevano infrangere il muro dell’omertà.
Pertanto, la mafia cerca di eliminare quelle donne che tentano di diventare collaboratrici di giustizia o le costringe in certi casi, ad indietreggiare nella loro scelta, attraverso pressioni psicologiche o intimidatorie: talvolta, le collaboratrici di giustizia decidono di ritrattare le proprie confessioni o di smentire eventuali accuse rivolte nei confronti di personaggi legati a Cosa Nostra.
Le donne, invece, che decidono di collaborare con la giustizia, oltre al programma di protezione dello Stato, ricevono solidarietà dalle associazioni antimafia.
Questo brano è tratto dalla tesi:
Le donne nella rete di ''Cosa Nostra''.
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Informazioni tesi
Autore: | Eleonora Svezia |
Tipo: | Laurea I ciclo (triennale) |
Anno: | 2014-15 |
Università: | Università degli Studi di Catania |
Facoltà: | Scienze Politiche |
Corso: | Storia e scienze dell'Amministrazione |
Relatore: | Rosario Mangiameli |
Lingua: | Italiano |
Num. pagine: | 54 |
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