Ambiente e perfezionamento del carattere: la virtù e l'etica ambientale

All’interno delle etiche anti-antropocentriche si distinguono posizioni che privilegiano entità individuali e discrete, in quanto “biota” singoli e specifici, e posizioni che, privilegiando e considerando totalità e processi naturali irriducibili ai loro componenti, si pongono in una prospettiva olistica.
Nella prima prospettiva di individualismo anti-antropocentrico, si collocano anzitutto le teorie che, estendendo la considerazione morale al di là della sfera umana, riconoscono all’uomo dei doveri diretti nei confronti di tutti gli animali senzienti Questa prospettiva è rappresentata dalla teoria neo-utilitarista di Peter Singer e da quella neo-giusnaturalista di Tom Regan, esponenti del movimento della “liberazione animale” che si pone come obbiettivo, appunto, l’estensione del circolo della moralità oltre la sfera dei membri della specie umana per includervi anche gli animali non umani.

In un’ottica biocentrica, che estende i confini della comunità morale a tutto ciò che vive, deve essere invece collocata l’etica del rispetto per la natura-in-vita, la cui pertinenza è ristretta al campo dei soli organismi individuali viventi i quali, per il fatto di possedere caratteristiche biologiche specie-specifiche, possiedono un “bene di per sé”.

Paul Taylor, che ho assunto come rappresentante dell’etica del rispetto della natura-in-vita, è l’inauguratore di un’ottica che fa leva sugli individui viventi come “centri teleologici di vita”, e in cui le entità ambientali collettive come specie ed ecosistemi non hanno un “valore inerente” distinto da quello degli organismi individuali, ma sono solamente classi o collezioni. Parlare del bene di una specie o di un ecosistema equivale a parlare statisticamente del “punto di distribuzione media del bene dei suoi membri individuali”.

L’etica del rispetto della natura-in-vita può essere, ed è, sostenuta anche in chiave olistica, per fondare il rispetto morale di specie, ecosistemi, biosfera: pensatori come Sterba e Johnson hanno ad esempio ritenuto che specie ed ecosistemi fossero sufficientemente organizzati e coesi da poter essere concepiti come “individui viventi”: la questione di essere un “essere vivente” infatti risiede a loro parere in una “questione di grado”.
La coesione e l’organizzazione richieste ad un’entità ambientale collettiva per avere un bene di per sé e un “valore inerente” sono sostanzialmente superiori alla mera prossimità spaziotemporale o a interconnessioni casuali: perché un’entità collettiva sia vista come un “essere vivente” essa deve essere diretta verso un fine che non si specifica come conseguenza non voluta delle relazioni tra le parti. Le parti devono essere coordinate verso un fine, e non tendere meramente ad esso, il quale inoltre non deve derivare dai desideri, dalle volontà, dai beni di altri, neppure da quelli delle parti dell’entità collettiva.