L'Educatore Professionale e l'accompagnamento alla morte. Riflessioni sulle possibilità di un lavoro educativo in hospice.
La presa in carico e i colloqui di accoglienza
Le diverse interviste somministrate hanno fatto emergere una procedura di presa in carico dei pazienti simile tra i diversi hospice. Il primo contatto avviene solitamente telefonicamente e dà normalmente luogo ad un incontro conoscitivo. Le procedure di presa in carico variano, in particolare in base all’appartenenza o meno dell’hospice alla Rete Hospice Milano che, come vedremo, permette una lista di attesa unica tra tutti gli hospice che ne fanno parte.
Inoltre, alcuni hospice hanno definito una priorità di accesso, come per esempio Vidas:
1) Pazienti a domicilio senza assistenza;
2) Pazienti a domicilio con assistenza Vidas;
3) Pazienti a domicilio con altra assistenza;
4) Pazienti ricoverati in ospedale, in ordine di arrivo.
All’hospice “Il Tulipano”, afferendo all’Ospedale Niguarda, viene data priorità di accesso ai pazienti provenienti dal reparto di Oncologia dell’ospedale stesso.
Ovviamente l’accesso o la messa in lista d’attesa vengono valutati una volta appurato che per quella data situazione il ricovero sia l’ipotesi più idonea, escludendone, dunque, altre, quali il ricovero presso altri hospice o ospedali, l’attivazione di un’assistenza domiciliare, ecc.
Il colloquio di accoglienza è in generale un momento delicato. Comprendere chi lo conduce e l’impronta che vi dà ê importante per capire se questo possa essere o meno un ambito nel quale un educatore possa spendersi.
Ciò che durante il colloquio si indaga, ciò che effettivamente si “dice”, gli aspetti approfonditi, le domande poste, l’impronta generale del colloquio, dipendono molto dal tipo di ente (e quindi dagli obiettivi che il colloquio si pone) e dal tipo di figura che conduce.
Se analizziamo due casi particolari, quello di Casa Vidas e quello di Abbiategrasso, potremo notare come si distinguano dagli altri, perlomeno nelle intenzioni. Per esempio, da quanto emerge dall’intervista con un operatore del Golgi-Redaelli, il colloquio svolto presso questa struttura dagli operatori sanitari appare più una raccolta di informazioni, con una check-list da compilare, finalizzata all’attribuzione di un punteggio sulla base di dati di tipo anagrafico, clinico, sociale, psicologico, legati alla consapevolezza, alla comunicazione tra i membri della famiglia, alla situazione famigliare, al grado di autonomia del paziente e della sua famiglia nell’assisterlo, al caregiver. In Casa Vidas e ad Abbiategrasso, invece, traspare dalle interviste un maggior scambio, una maggior interazione tra le parti.
Gli assistenti sociali e l’educatrice appaiono fortemente interessati ai vissuti degli interlocutori, a comprendere come stiano vivendo la situazione e a gettare, già dal primo colloquio, piccoli semi di cambiamento laddove risulti necessario. In particolare, ad Abbiategrasso l’educatrice si occupa principalmente di quelli che sono i vissuti delle persone rispetto alla loro situazione. Cerca di capire quanta consapevolezza c’ê nelle persone che ha di fronte e di comprendere le loro perplessità e i punti critici che portano. Spiega quali sono i passaggi da affrontare ma lascia aperta la comunicazione rispetto ad altri temi che gli interlocutori propongono. Pone particolare attenzione sulla consapevolezza del paziente e degli altri famigliari e sul percorso di accettazione della malattia e dell’evento morte.
Il colloquio che l’educatrice imposta non ê costituito solo da domande: cerca infatti di cominciare ad individuare quali possano essere i bisogni di quella determinata famiglia e/o paziente, e comincia a lavorarci da subito. L’educatrice ha poi la possibilità di seguire famiglia e paziente in colloqui di follow up, per proseguire il percorso iniziato. Una situazione simile, sebbene più circoscritta e non sempre attuata, è osservabile in Casa Vidas, dove sono gli assistenti sociali a condurre il colloquio. Mi sono state spiegate le ragioni per le quali si è scelto di farlo condurre a loro: dato che le motivazioni del ricovero sono legate quasi sempre a problemi psico-sociali (nel senso più ampio del termine) e poche volte al bisogno clinico oggettivo (medicazioni, macchinari ecc.), l’accoglienza così pensata permette di valutare i problemi di cui sopra fin dall’inizio. Un medico o un infermiere farebbero emergere e valuterebbero (e di solito così accade) gli aspetti sanitari.
Il lavoro svolto nel colloquio prevede anche di cominciare a “preparare il terreno” per ingaggiare l’alleanza con la famiglia e con il paziente. Gli assistenti sociali di Vidas, infatti, si pongono precisi obiettivi, al di là di quelli conoscitivi, per il colloquio. La visione comune che si cela dietro all’intero lavoro degli assistenti sociali ha molto a che fare con l’educazione, nella misura in cui gli obiettivi che da essa muovono riguardano l’implementazione delle potenzialità e delle risorse già insite nella famiglia. Gli obiettivi degli assistenti sociali riguardano in particolar modo la stimolazione delle risorse e della resilienza della famiglia, tuttavia uno dei problemi emersi nel discutere questi elementi è la difficoltà nel perseguire obiettivi di questo tipo, perché è difficile trovare lo spazio necessario e dunque stabilire una continuità che superi il primo colloquio. Spesso questi discorsi non sono neanche toccati, altre volte invece manca, da parte degli assistenti sociali, lo sforzo di comprendere che cosa queste idee hanno mosso nella famiglia, con un’attenzione al vissuto più propria, per esempio, dell’hospice di Abbiategrasso.
Quelle di seguito sono le funzioni educative che in parte già gli assistenti sociali cercano di assolvere: un intervento educativo in questo ambito farebbe propri i nuclei di interesse degli assistenti sociali e al contempo avrebbe uno sguardo in più rivolto alla continuità dell’intervento e ai vissuti dei famigliari.
- Permettere alla famiglia di esprimersi, di formulare il proprio racconto della malattia, della situazione attuale e delle aspettative, speranze, emozioni, ecc.
- Cercare di restituire alla famiglia uno spazio operativo per toglierla dal senso di impotenza.
- Stimolare le risorse presenti nella famiglia e promuoverne la resilienza. L’idea di fondo ê restituire ai famigliari il ruolo di accompagnatori relazionali, di protagonisti dell’assistenza al loro parente. Una strategia di attuazione in tal senso ê cercare di fornire loro gli strumenti per agire un “buon” accompagnamento relazionale del parente, ad esempio insegnando ai membri come il morente si adatta al processo che sta vivendo, affinché la famiglia possa utilizzare una modalità relazionale che costi meno in termini di fatica a se stessa ed al paziente.
- Stimolare la resilienza delle famiglie vuol dire promuoverne l’autonomia e questo significa dare una continuità all’intervento educativo, lavorare in un rapporto di dipendenza utente-educatore cercando però di agevolare la famiglia affinché possa generalizzare quanto appreso anche successivamente ed in altri ambiti. È importante quindi non fermarsi al “qui ed ora”.
- Aiutare la famiglia a riflettere sulla necessità di creare dei traguardi intermedi, generando psicologicamente degli obiettivi parziali senza porsi subito come traguardo la “morte”, che spaventa molto e troverebbe più impreparati. Ad esempio i famigliari possono imparare ad utilizzare gli ausili e questo costituirebbe un primo piccolo obiettivo, e così di seguito.
- Tentare di contenere la solitudine della famiglia attraverso tutti questi interventi.
- Mettere in contatto le famiglie con altri enti o servizi più adeguati e competenti rispetto a quelle problematiche che l’Ente non ê in grado di gestire (es. presenza di disabilità, psichiatria, minori, ecc. oltre alla presenza di un malato terminale).
L’idea da cui partire e sulla quale ê evidentemente possibile un intervento educativo è quella secondo cui la famiglia sia un’entità della quale, da una parte, supportare le debolezze e, dall’altra, stimolare le risorse. In particolar modo, è importante tenere ben presente che spesso il colloquio di accoglienza è il primo confronto dopo quello avuto con una figura professionale che ha suggerito ai famigliari e/o al paziente di rivolgersi all’hospice, spesso dopo la constatazione che la medicina curativa non trova più spazio in quella situazione. Per questo è un momento molto delicato ed è indispensabile affrontarlo tenendo in considerazione tutto ciò che la famiglia ha da dire, da esprimere.
L’Educatore, adeguatamente supportato dall’équipe, potrebbe allora, creando uno spazio di incontro tra la propria figura professionale e i famigliari, e agevolando un contesto adatto alla creazione di una concreta collaborazione, sviluppare l’esperienza di confronto su temi importanti e coinvolgenti quali quelli sopra elencati.
In questo modo risponderebbe, almeno in parte, ai bisogni che si ritengono propri dei famigliari, come:
- “Sentirsi utili e fare abbastanza per il loro familiare;
- Esprimere le emozioni, comunicare e affrontare l’esperienza;
- Sentirsi supportati dall’equipe;
- Dare un senso alla situazione di disagio/malattia.”
I colloqui di accoglienza risulterebbero allora uno spazio sicuramente adeguato ad una professione educativa, se ci fosse la possibilità, sulla falsariga dell’esperienza di Abbiategrasso, di dar seguito al primo colloquio con colloqui di follow up.
Questo brano è tratto dalla tesi:
L'Educatore Professionale e l'accompagnamento alla morte. Riflessioni sulle possibilità di un lavoro educativo in hospice.
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Informazioni tesi
Autore: | Giulia Viviani |
Tipo: | Laurea I ciclo (triennale) |
Anno: | 2012-13 |
Università: | Università degli Studi di Milano |
Facoltà: | Medicina e Chirurgia |
Corso: | Lauree sanitarie |
Relatore: | Giovanni Valle |
Lingua: | Italiano |
Num. pagine: | 205 |
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