L'agire delle emozioni nella pratica marziale
La paura nelle arti marziali
Nella pratica quotidiana dell’arte marziale, quando si gareggia in Kumitè (combattimento) è naturale sperimentare un certo grado di ansia che, entro certi limiti, non ha riflessi negativi, anzi può essere tale da attivare l’organismo in modo ottimale.
L’ansia verso il combattimento può trasformarsi in paura. Tipicamente è scatenata o dalla possibilità di subire del dolore fisico, o dalla angoscia per una possibile sconfitta.
Va ricordato che la paura in uno sport individuale di contatto con controllo della potenza dei colpi, non genera quasi mai dolore e, qualora lo generasse, sarebbe da imputare ad un incidente e non alla volontà dell’avversario, anche considerando che la mancanza di controllo nel portare le tecniche costerebbe una squalifica al colpevole.
Per questo motivo, nel kumitè la vera paura è quella della sconfitta (o della vittoria), mentre il dolore fisico è assolutamente residuale.
Certo che resta l’ancestrale paura della minaccia teorica di un avversario posto di fronte a noi in atteggiamento bellicoso.
Pur con queste garanzie circa l’incolumità dell’atleta, abbiamo la frequenza cardiaca che, in un atleta a riposo è normalmente tra i 50 ed i 70 battiti per minuto, schizzare a circa 170 battiti per minuto, consumando conseguentemente maggiore energia.
Pertanto il tentativo dovrebbe essere quello di mantenere uno stile attentivo ristretto esterno, e cercare di regolarizzare il proprio respiro a livelli ottimali, concentrandosi su di esso e inspirando con il naso ed espirando con la bocca.
Durante il combattimento l’udito, il gusto e l’olfatto vengono praticamente disattivati, in quanto non strettamente indispensabili per la nostra difesa.
In gara, però, occorre mantenere una certa attenzione anche al senso dell’udito, in quanto l’allenatore è li anche e soprattutto per guidarci nella nostra azione. l’importante è focalizzare anche l’udito verso un’unico stimolo uditivo, cancellando gli altri.
Il senso che acquista maggiore importanza è la vista. Le pupille si dilatano per fare entrare la maggior luce disponibile e quindi offrire maggiori informazioni rilevanti possibili per interpretare nel modo più corretto quanto sta accadendo.
Ma come è possibile allenarsi per evitare la paura del combattimento? La metodologia di allenamento è estremamente importante ed è la base per raggiungere le competenze tecniche per sostenere la tensione della gara.
Al di la dell’allenamento dal punto di vista motorio e il raggiungimento della massima forma dal punto di vista atletico, la parte tecnica deve prevedere una serie di step che devono automatizzare i movimenti per renderli maggiormente veloci nella loro attivazione e nell’esecuzione finale.
In primo luogo vengono schematizzati i possibili attacchi dell’avversario e si allenano le tecniche di difesa. Dopo migliaia di ripetizioni di uno specifico stimolo a velocità crescente, l’allievo raggiunge un certo grado di automatismo che gli consente di organizzare in automatico un gesto tecnico specifico ad un attacco determinato, utilizzando la memoria procedurale, come guidare l’automobile. Così per ogni possibile stimolo.
Poi si effettua lo stesso training per ogni tecnica di attacco. Anche in questo caso la progressione nella velocità e l’infinita ripetizione generano automatismo.
Si allena il pugno (tsuki) a livello Jodan (all’altezza del viso), sia diretto che circolare, sferrato dallo stesso lato della gamba davanti e successivamente contro laterale. Poi è la volta degli stimoli “chudan”, ovvero all’altezza del tronco e poi quelli “gedan” che colpiscono stomaco e parti basse. Poi i “geri”, i calci, siano essi alti, all’altezza del viso, medi, a colpire le costole fluttuanti o bassi.
Poi è la volta delle finte e delle tecniche diversive. Le possibili tecniche da apprendere sono centinaia ma l’atleta immagazzinerà nella memoria procedurale solo 60 - 70 di queste, onde consentirgli la migliore prestazione possibile.
Raggiunto un elevato livello di velocità nelle reazioni automatiche agli stimoli, è la volta di passare ad un allenamento basato su stimoli variabili, ovvero attacco libero e difesa libera. Qui c’è l’applicazione reale di tutte le tecniche di base e rappresenta la vera preparazione alla gara di kumitè.
La progressione temporale delle tecniche e la loro ripetizione infinita ha come primo obiettivo quello di riuscire a non fare chiudere gli occhi all’atleta durante il gesto tecnico. Come abbiamo evidenziato, non ci sarebbe motivo di avere una paura tale da farci chiudere gli occhi.
Ma la paura non è innescata dal pericolo ma bensì dalla previsione del pericolo. Da quanto potenzialmente potrebbe succedere, e non da ciò che effettivamente succederà.
Non è facile controllare qualche cosa che non abbiamo mai ben sperimentato, ad esempio il combattimento reale. Pertanto il conoscere le tecniche, averle provate e subite a varie velocità per migliaia di volte, ci consente di riuscire a tenere gli occhi aperti durante gli allenamenti e la gara.
In effetti mentre lo stimolo viaggia veloce verso l’amigdala, il talamo manda le stesse informazioni anche alla corteccia visiva, che le processa e le rispedisce con la dovuta calma all’amigdala, la quale solo allora si rende conto che si trattava di un falso allarme. Successivamente il pericolo scampato viene comunicato anche all’ippocampo e alla corteccia prefrontale dove risiedono i processi cognitivi e l’apprendimento in modo che la memoria ci possa aiutare a distinguere sempre meglio quello stimolo non pericoloso, rispetto al combattimento vero e proprio per strada in una serata buia, magari aggredito da sconosciuti.
Un altro allenamento per risolvere questo problema è quello che facevano i maestri molti anni or sono, ovvero usavano il controllo della tecnica se l’atleta riusciva a tenere gli occhi aperti e colpivano più duro se l’atleta li chiudeva.
Il secondo obiettivo dell’allenamento è quello di insegnare a respirare correttamente mentre si combatte.
Il concentrarsi sulla respirazione con respiri il più controllati possibile è di aiuto sia nell’allenamento, sia in gara.
Abbiamo visto che la paura ha finalità evolutive e serve come nostra difesa per reagire ad una situazione di pericolo della durata di istanti o di pochi minuti, in genere. Ma se la l’allarme è prolungato, se viviamo una situazione di eccessiva ansia per lungo tempo che cosa accade? La differenza tra paura e stress è tutta nella dimensione temporale.
Quando la sensazione di pericolo è prolungata, come nel caso di un lavoro costantemente praticato in ambiente ostile o l’allenarsi in situazioni particolarmente difficili o la partecipazione in gare sempre non alla nostra portata, le ghiandole surrenali producono cortisone, l’ormone dello stress, la cui produzione eccessiva rischia di debordare e portare allo stress cronico.
Il cortisone inibisce il sistema immunitario, interferisce negativamente con il sistema endocrino e attacca l’ippocampo, disturbando in modo significativo le funzioni della memoria e dell’apprendimento. In una situazione del genere non c’è spazio per migliorare la propria performance ma, al contrario, si mette a serio rischio la salute.
Lo stress, quindi, diventa estremamente negativo sopra dei livelli soglia (che differiscono da individuo ad individuo), mentre a livelli più bassi consente di mantenere un efficiente stato vigile e può essere anche di stimolo per una aumentata produttività nello studio, nel lavoro e nello sport.
Nel prossimo capitolo parleremo di tecniche di allenamento e di alcuni metodi che possono aiutare a migliorare le performance e a gestire l’ansia della gara, e lo stress non cronico, in particolare le tecniche di rilassamento, il training autogeno e l’allenamento ideomotorio.
Questo brano è tratto dalla tesi:
L'agire delle emozioni nella pratica marziale
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Informazioni tesi
Autore: | Gianartemio Raimondi |
Tipo: | Tesi di Master |
Master in | psicologia dello sport |
Anno: | 2021 |
Docente/Relatore: | Gian Artemio Raimondi |
Istituito da: | UniCusano - Università degli Studi Niccolò Cusano |
Lingua: | Italiano |
Num. pagine: | 115 |
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