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Le origini storiche del fenomeno mafioso

La mafia nel periodo post-unitario (1861-1882)

Dopo l’unità d’Italia il banditismo si diffuse in Sicilia contestualmente al brigantaggio e fu affrontato dal governo con la stessa durezza. Blok ritiene che il banditismo può essere descritto come un fenomeno intermedio tra il brigantaggio e la mafia: i banditi al pari dei briganti erano per lo più contadini poveri, organizzati per bande che si spostavano da un villaggio all’altro, privi di orientamento politico, al contrario del brigantaggio. I banditi si differenziavano dai mafiosi per alcuni importanti aspetti cioè operavano principalmente attraverso l’uso della forza, non appartenevano alle lunghe, affidabili e protettive catene patrono-clientelari e, sebbene nella misura in cui avevano successo, tendevano a confluire nella organizzazione mafiosa, questa a sua volta, se minacciata, li eliminava.
Ne conseguiva per Blok il seguente enunciato: «quanto più un uomo ha successo come bandito, tanto più estesa è la protezione di cui gode».
Il banditismo però, al contrario di quello che avvenne nel continente, non aveva in Sicilia alcun disegno politico, in quanto l’influenza degli agenti borbonici era nell’isola pressoché nulla e i banditi erano per lo più lontani da rivendicazioni di tipo economico e sociale. Si diventava banditi perché si commetteva qualcosa, che seppur non considerata criminale dall’opinione popolare del luogo, lo era per lo Stato o per i governanti locali. Per Eric John Ernest Hobsbawm lo Stato mostrava interesse per un contadino se autore di una piccola infrazione alla legge con la conseguenza di una latitanza perché ignaro del sistema giudiziario.
Anche per Lupo sia il brigantaggio che il banditismo in Sicilia vivevano sotto una rete di relazioni interpretabili come rapporti clientelari tra il latifondista e il bandito, un intreccio che veniva chiamato manutengolismo. Brigantaggio e banditismo, venivano considerati dagli storici, ad esempio Lupo, come apparati logistici della bassa mafia.
Manutengoli erano gli eminenti cittadini, i proprietari terrieri che intrattenevano rapporti con i facinorosi temendo per la propria vita ed i propri beni; per viltà, per mostrare, a giudizio di Lupo, come la propria auctoritas si collocasse al di sopra della legge comune.
I termini di scambio erano universalmente noti: il notabile ricoverava nelle sue masserie il bandito a cui forniva informazioni e rifornimenti; in cambio il bandito evitava ostilità verso i familiari, i clienti, gli interessi e, anzi, si rivolgeva contro i suoi avversari.
A Favara accadde che i briganti intervennero nei conflitti municipali come braccio armato di una delle due fazioni mafiose: nella faida tra due eminenti famiglie di Partinico, gli Scalia si servirono del brigante Nobile per uccidere un figlio del notaio Cannizzo il quale per vendicarsi ingaggiò alcuni killer di Monreale.
Comune ai tre fenomeni brigantaggio, banditismo e mafia era il controllo del territorio in sostituzione dello Stato, situati a un livello di criminalità superiore a quella comune.
Durante questo periodo storico, ossia nel 1862, si ebbe la rappresentazione del dramma dialettale popolaresco "i mafiusi di la Vicaria", di Giuseppe Rizzotto, da cui la parola "mafia" comincia ad avere un significato preciso. Si trattava di una storia drammatica ambientata nel carcere dell’Ucciardone di Palermo dove pochi manigoldi dominavano la maggioranza dei reclusi imponendo taglie o tributi, i cosiddetti u’pizzu o pagliericcio che, teoricamente, servivano per aiutare i detenuti più poveri, anche se in realtà i provenenti del pizzo rimanevano ai mafiosi e i detenuti non ricevevano alcunché.
In merito al problema dell’ordine pubblico in Sicilia, il governo istituì la prima Commissione Parlamentare d’inchiesta, e tra il 3 e il 4 maggio 1863, la relazione conclusiva fu letta alla Camera dei deputati, in Comitato segreto, da Giuseppe Massari e Stefano Castagnola. Le conclusioni cui pervenne la Commissione mostrarono le inesattezze delle tesi sul brigantaggio da parte dei moderati e dei democratici.
Secondo la Commissione il brigantaggio non era solo "volgare delinquenza" o "flagello" che sconvolgeva le campagne del mezzogiorno, e i clerico-borbonici non erano i responsabili principali della situazione che si era venuta a creare, in quanto avevano quale obiettivo la restaurazione dell’antico regime. Per la Commissione i galantuomini meridionali, negando ai contadini le terre demaniali, avevano provocato una forte reazione che aveva assunto proporzioni sempre più preoccupanti. Secondo la Commissione il potere centrale continuava a ignorare i bisogni dei contadini, le necessità e le loro aspirazioni e non interveniva per sottrarli alla miseria che li opprimeva. Il brigantaggio, così come si era manifestato nell’Italia meridionale, per la Commissione, rappresentava una rivolta dei meno abbienti contro la borghesia terriera che, tenacemente conservatrice anche quando si autodefiniva liberale e democratica, aveva accettato l’annessione al Piemonte solo perché convinta che il nuovo regno avrebbe lasciato immutate le strutture economico-sociali del paese.

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Le origini storiche del fenomeno mafioso

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Informazioni tesi

  Autore: Federico Conte
  Tipo: Laurea II ciclo (magistrale o specialistica)
  Anno: 2010-11
  Università: Università degli Studi del Salento
  Facoltà: Lettere e Filosofia
  Corso: Scienze Politiche, Comunitarie e delle Relazioni Internazionali
  Relatore: Carmelo Pasimeni
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 164

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Parole chiave

mafia
criminalità organizzata
stato
brigantaggio
clientelismo
bandito giuliano

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