La guerra commerciale fra USA e Cina. Scenari attuali e futuri
La guerra commerciale USA-Cina
Le cause del conflitto
La guerra commerciale fra Cina e Stati Uniti è uno dei (se non il) più discussi argomenti sui media economico-finanziari negli ultimi due anni, cominciata dopo l’elezione di Donald Trump come Presidente degli Stati Uniti. Essendo una vicenda estremamente complessa va analizzata da più prospettive, e prima di entrare nel vivo della tematica mi soffermerò sulle cause, prima economiche poi geopolitiche, che hanno condotto alla “battaglia dei dazi” fra i due Paesi più influenti e potenti del mondo. Conoscere le cause, oltre che favorire una più profonda comprensione della vicenda, ci offre un quadro per analizzare la sua possibile evoluzione futura.
Potremmo dire che le prime complicazioni sono iniziate con l’adesione della Cina al WTO, avvenuta nel 2001 in seguito al United States-China Relations Act del 2000, ottenendo poi lo status di nazione più favorita o Most Favoured Nation (MFN) nel 2017.
I cinesi hanno senza dubbio saputo sfruttare al meglio i vantaggi offerti dalla globalizzazione, e ciò è stato confermato dai dati della Banca Mondiale, secondo cui il valore dell’export cinese dal 2001 al 2014 è passato da 266 a 2.300 miliardi di dollari. Il volume di produzione della Cina è ora al secondo posto a livello mondiale e il Pil cinese ha già superato gli Stati Uniti in termini di parità di potere d'acquisto.
Nel 2017 è stato compiuto un altro passo importante con il riconoscimento alla Cina dello status di economia di mercato (MES-Market Economy Status), in seguito alla decadenza della clausola del protocollo sul calcolo del margine di dumping, clausola che la Cina aveva accettato con l’adesione al WTO insieme all’impegno alla transizione verso un’economia di mercato.
Pechino ha lasciato decadere la clausola perché si sentiva in diritto di avere un riconoscimento automatico di economia di mercato. Ma così non è stato, infatti la questione si è trascinata per qualche anno, a causa dell’opposizione degli Stati Uniti e dell’Unione europea, fino al 2019 quando la Cina ha perso una sentenza provvisoria contro l’UE. Tale sentenza consente ai paesi dell’UE e agli Stati Uniti di continuare ad applicare misure protezionistiche contro le aziende cinesi.
Una delle cause primarie dello scoppio della “guerra dei dazi” attuale è il crescente divario commerciale fra i due Paesi che dura ormai da tempo. Come illustrato nel capitolo precedente, una delle debolezze strutturali dell’economia americana è il consistente deficit commerciale: nel 2017 gli Usa avevano un deficit commerciale complessivo di 796 miliardi di dollari, di cui 376 miliardi con la Cina, cioè il 47% del totale.
Nel 2018 gli Stati Uniti hanno importato hanno importato merci dalla Cina per 539,5 miliardi di dollari ed hanno venduto alla Cina merci per 120,3 miliardi di dollari, creando un deficit di 419,2 miliardi di dollari (figura 19). Il 19% delle esportazioni cinesi va negli Stati Uniti, mentre solo l'8,3% delle esportazioni statunitensi arriva in Cina. Quest’ultima esporta più di quanto importi dagli Usa e ciò comporta per gli Stati Uniti un aumento del debito verso la Cina.
Il rapporto fra una Cina che esporta a basso costo senza consumare e che dovrebbe spostare la crescita verso la domanda interna, e un’America che vive sopra ai propri mezzi senza risparmiare necessitando invece di aumentare le esportazioni, non è più sostenibile.
Un ruolo significativo nel deficit è svolto dal dollaro americano: dalla crisi del 2008 il valore della valuta Usa è aumentato contro quasi tutte le monete mondiali, in parte per la crisi dell’euro nel 2012. Il rafforzamento del dollaro penalizza le esportazioni americane e ciò dà un’ulteriore spinta alla crescita del deficit e alla crisi del settore manifatturiero statunitense. Nel frattempo, l’utilizzo della valuta cinese (Renmimbi) è cresciuto costantemente nel commercio e nelle transazioni mondiali, sfidando la posizione dominante del dollaro Usa.
L’immagine di una Cina come potenziale minaccia al dominio statunitense si è anche rafforzata di recente in seguito ad iniziative che vanno dalla Belt and Road Initiative (OBOR), alla Asian Infrastructure Investment Bank (AIIB), o ancora al progetto di aggiornamento industriale “Made in China 2025” introdotto da Pechino nel 2015, di cui si è già trattato nel capitolo inerente alla strategia commerciale globale cinese. Trasformare la Cina da un hinterland manifatturiero a basso costo ad un centro dell’innovazione rimane la massima priorità del presidente Xi Jinping negli anni a venire. L'obiettivo è quello di sostituire la tecnologia straniera con fornitori nazionali in settori strategicamente importanti quali la tecnologia dell'informazione, la biotecnologia, la robotica, la tecnologia aerospaziale ed i veicoli a energia pulita.
Nel 2015, la Cina ha investito il 2,06% del suo Pil in R&S, contro il 2,79% degli Stati Uniti. Dal 1996, l’intensità della R&S in Cina è aumentata dell’1,5%, contro lo 0,3% statunitense, inducendo Donald Trump a dichiarare esplicitamente che "Made in Cina 2025" mina gli interessi dell'America e di altri Paesi.
Il commercio reciproco con la RPC è un fattore significativo che influenza l'aumento del deficit delle partite correnti degli Stati Uniti e che rappresenta una minaccia esistenziale per i posti di lavoro statunitensi e la sicurezza nazionale. Già dagli anni ’80 Trump si era dimostrato a favore di dazi per ridurre il deficit commerciale degli Stati Uniti e promuovere la produzione domestica, affermando che il Paese veniva "derubato" dai suoi partner commerciali. Nel 2011 aveva affermato che era “quasi impossibile per le nostre società competere con le aziende cinesi”
perché la Cina aveva manipolato la sua valuta. Durante la campagna elettorale Trump si è scagliato contro il Dragone accusandolo di aver commesso "uno dei più grandi furti nella storia del mondo", di perseguire politiche commerciali sleali e di sfruttare i vantaggi della liberalizzazione del commercio e dell'adesione all'OMC, mantenendo allo stesso tempo il proprio mercato interno salvaguardato dalla concorrenza estera attraverso i sussidi e facilitando l'esportazione tramite la sotto-valutazione dello Yuan.
Il basso costo del lavoro in numerosi Paesi emergenti (in molti casi anche più basso di quello cinese) ha esposto il settore manifatturiero statunitense e più in generale dei paesi sviluppati ad una feroce concorrenza che ha provocando una forte riduzione di posti lavoro (circa il 40% in meno dagli anni ’50 al 2019). L’industria siderurgica americana, ad esempio, tra il 2000 e il 2016 ha perso circa 50 mila posti di lavoro, principalmente a causa della competitività cinese. L’economia della tigre asiatica contribuisce da sola alla metà dell’intera produzione mondiale di acciaio.
Uno dei cavalli di battaglia di Trump nelle elezioni del 2016 è stato senza dubbio il riequilibrio del deficit commerciale con la Cina. Le azioni protezionistiche trovano quindi una motivazione nell’obiettivo di offrire un supporto ai produttori nazionali limitando la concorrenza straniera e riducendone il consumo complessivo, incoraggiare l’innovazione e preservare il vantaggio tecnologico. La risposta protezionistica ha però effetti controproducenti per la stessa economia americana e fortemente destabilizzanti per gli equilibri geo-economici globali. Nel caso di acciaio e alluminio, i dazi favoriscono l’attività siderurgica Usa a scapito però di molti settori manifatturieri domestici che utilizzano acciaio e alluminio nei loro processi produttivi.
Un altro obiettivo della guerra commerciale dichiarata da Trump è quello di ridurre la capacità high-tech della Cina, limitando l'accesso delle aziende cinesi alle tecnologie americane e prevenendo la modernizzazione digitale dell’industria nella RPC. L’economia del Dragone non minaccia infatti soltanto il manifatturiero americano, ma la stessa supremazia statunitense nel campo tecnologico. Negli accordi di joint venture con le imprese cinesi, le imprese occidentali sono spesso obbligate al trasferimento di tecnologia. Le società americane sono costrette a trasferire la loro tecnologia per mantenere l’accesso al mercato cinese; il governo statunitense considera le condizioni imposte per l’ingresso in Cina come una sorta di “furto di Stato”, clausole vessatorie ingiuste per le imprese statunitensi e pericolose per la sicurezza nazionale.
L'industria tecnologica è anche uno dei principali contributori al deficit commerciale: l'elettronica di consumo (smartphone e personal computer) da sola ha rappresentato nel 2018 circa 130 miliardi di dollari dei 419 delle importazioni totali, che l'attuale amministrazione statunitense ha dichiarato di voler tagliare all’incirca della metà.
La Cina è il principale assemblatore di componenti e materiali importati per la produzione di articoli elettronici che vendono poi venduti negli Stati Uniti; circa il 70% delle importazioni complessive dei principali prodotti elettronici di consumo, come smartphone, laptop e TV, proviene infatti dalla Cina. Ne è un esempio spesso citato l’iPhone, uno dei principali prodotti che contribuisce a formare l’enorme deficit commerciali statunitense con la Cina nel settore tecnologico.
La Cina si è offerta di aumentare gli acquisti di prodotti statunitensi come soia, gas naturale liquefatto e aerei commerciali, ma l’obiettivo statunitense di dimezzare il divario può essere raggiunto solo mettendo in gioco, inevitabilmente, anche i prodotti tecnologici.
Per mantenere il vantaggio competitivo, l’amministrazione Trump ha adottato la misura dell’isolazionismo invece di motivare le imprese americane ad essere più competitive. Pertanto, la guerra commerciale viene usata come un’arma per plasmare le regole del gioco degli scambi globali, indebolendo il ruolo di arbitro internazionale del WTO, per rafforzare il ruolo degli Stati Uniti nei negoziati bilaterali.
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La guerra commerciale fra USA e Cina. Scenari attuali e futuri
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Informazioni tesi
Autore: | Martina Bicelli |
Tipo: | Laurea II ciclo (magistrale o specialistica) |
Anno: | 2019-20 |
Università: | Università Cattolica del Sacro Cuore di Brescia |
Facoltà: | Lingue straniere per la comunicazione internazionale |
Corso: | Management e relazioni economiche internazionali |
Relatore: | Marco Grumo |
Lingua: | Italiano |
Num. pagine: | 147 |
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