Il bestiario di Dino Buzzati
La favola in Dino Buzzati
La scrittura di Buzzati, come si è visto nel primo capitolo, risente degli echi fiabeschi delle letture giovanili, influsso testimoniato peraltro dai primi suoi due romanzi. Altrettanto forte è però il richiamo della favola esopica, che fornisce il modello per gran parte dei racconti prodotti dall'autore bellunese, ossia del Bestiario costituitosi lungo il suo sentiero letterario, che andiamo qui trattando.
Tali scritti vedono protagonisti animali, reali o immaginari, con caratteristiche antropomorfe, i quali incarnano comportamenti e pensieri tipici dell'uomo, esemplificando dei veri e propri tipi. In alcuni racconti questi riflettono il clima socio-politico dell'epoca, come Un cane progressivo, racconto del '53 dove si assiste all'avvicinamento ai dettami del Comunismo da parte di Caligola, un "borghese" barbone nero; in altri l'autore si sofferma sul tema-cardine (per la sua scrittura, nonché per l'intero Novecento esistenzialista) della vita come attesa, talvolta premendo su quell'assenza di senso che la rende assurda e incompleta (è il caso di Un serpente di mare spaiato), altre volte sulla imperscrutabilità del destino a cui si contrappone l'ineluttabilità della morte (come ne Il Falstaff della fauna).
A questi temi si aggiunge poi la funzione, quasi sacrale, di ponte tra la realtà e l'altrove, di cui sono investite le creature protagoniste della scrittura di Buzzati. Come Claudio Marabini rammenta nella prefazione alla raccolta Bestiario, «gli animali si trasformano in un anello che abbraccia l'umanità e la congiunge a un altro mondo. Sono un tramite popolato di voci e di segnali, di domande e forse di risposte. [...] Stando tra gli uomini e le cose, possono coincidere con l'uomo e vedere più oltre e più acutamente» (B, p. 7).
Tale posizione fa sì che gli animali vengano visti dall'uomo con una certa soggezione. Lo stesso Buzzati, in un'intervista rilasciata al critico francese Yves Panafieu, disse: «Spesse volte l'animale si presta a incarnare il mistero, essendo già per noi il mistero, perché non sappiamo dentro cosa c'è» (B, p. 12). A una funzione di questo tipo assolve il lupo, protagonista del racconto omonimo (B, pp. 71-75) pubblicato nel 1947 sul «Corriere della Sera», che si aggira per i quartieri di una città seminando il panico. L'animale in realtà non fa mai la sua apparizione; di lui si scorgono dapprima le impronte sulla polvere di un marciapiede, poi delle chiazze di sangue, e infine si sente di notte il suo ululato. Gli abitanti della zona al calar del sole restano chiusi nelle loro abitazioni, perdono tutta la sicurezza e la spavalderia mostrate durante il giorno. L'oscurità della notte e l'indeterminatezza del nemico sono fattori fondamentali che scatenano nell'uomo una paura atavica: quella dell'ignoto, che rapidamente si collega, con la sua impenetrabilità e con la minaccia che reca con sé, a quella della morte. La figura del lupo viene qui trasfigurata da animale minaccioso a vera e propria manifestazione di queste fobie, ed è proprio per mantenere la coerenza con i panni che veste che di lui non se ne intravedono che sparute tracce.
Il racconto Bestiario (B, pp. 235-241), pubblicato nel 1971 (un anno prima della morte) sul «Corriere della Sera», costituisce un caso molto interessante nell'opera di Buzzati, che acquista un'evidenza maggiore di fronte ai temi qui trattati. Impostato sulla base dei bestiari medievali, è costituito da cinque brevi narrazioni slegate tra loro, nelle quali, trattando uno specifico animale o un gruppo di simili, associa a questi e agli eventi riportati, un significato allegorico (e, talvolta, una morale). Questi riquadri rappresentano dunque delle favole moderne, nelle quali l'autore esprime i suoi pensieri sulla vita, e giudizi di ordine morale circa il comportamento dei suoi simili.
Nel primo, intitolato La talpa, un uomo gravemente malato vede formarsi una duna nel prato di fronte alla sua abitazione, e quando questa si approssima a lui immagina che sotto possa trovarsi una gigantesca talpa o qualche altro animale (che però, come il lupo del racconto precedente, non si manifesta mai, mantenendo intatto il suo mistero), e da quella visione capisce che la sua ora è ormai giunta.
Ne La galera lo scrittore associa alle gloriose imbarcazioni della Serenissima, cadute ormai in disuso, i centopiedi che percorrono i muri delle case venete. Il collegamento è dovuto alla forma prolungata delle galere, munite di diverse file di remi, ma anche dall'eleganza e alla «aristocratica fragilità» di quegli insetti – che chiama galìe, – rimasti forse gli ultimi a tramandare le antiche glorie del passato.
Nel terzo riquadro, Lo stormo, l'annuale migrare di uccelli che attrae lo sguardo del narratore assume un connotato misterioso e inaspettato. Questi, rivolgendosi al maestoso signore degli uccelli, scopre che quella compiuta dagli animali non è una comune trasmigrazione: gli uccelli stanno dipartendo dalla vita verso una destinazione ignota, e sono stati gli uomini stessi, coi loro schioppi e i loro fucili, a determinarne la fine. Il racconto si conclude dunque con un macabro monito da parte dello spirito, il quale ricorda agli uomini, sciagurati, della precarietà della loro esistenza.
Ne I buoi si assiste all'utilizzo da parte di Buzzati del repertorio di credenze popolari venete, che spesso affiora nei suoi racconti. L'autore tratta qui della credenza secondo la quale una volta l'anno, nella notte della vigilia di Natale, i buoi chiusi nella stalla comincino a parlare tra di loro. Un amico del narratore sistema una magnetofono per ascoltare i discorsi degli animali, che però scambiano tra di loro solo poche battute, sapendo di essere ascoltati. Risulta interessante l'utilizzo del dialetto per dare voce agli animali; un'ulteriore "umanizzazione", dal momento che questo implica un bagaglio culturale proprio di un'area e di una comunità ben precise.
La quinta e l'ultima narrazione, Il moscone, si presenta come una riflessione su un tema che un tempo fu di Leopardi, ossia quello della speranza, strettamente collegato alla ricerca della felicità. Il narratore si trova nella stanza dove ha trascorso l'infanzia e l'adolescenza, quando improvvisamente sente il ronzio di un moscone. Riconosce immediatamente quel suono sconnesso come lo stesso udito tanti anni fa da ragazzo, proprio in quella casa. Si sofferma su quel ricordo, e gli ritornano alla mente le «meravigliose disperazioni» di un tempo, la malinconia assoluta che si avverte a quell'età, confortata però dalle speranze per il futuro. Si chiede, anche se sa bene che è impossibile, se quel moscone sia lo stesso di allora. Anche in quel momento il narratore avverte una profonda malinconia, ma è solo «una povera tristezza», priva di ogni conforto, dal momento che a lui non è più concesso di riporre la fiducia negli anni a venire, poiché sa che la fine del suo tragitto è ormai vicina. L'uomo decide di schiacciare l'insetto, ma poco prima di sferrare il colpo mortale si blocca: comprende infine che quel moscone è una estrema manifestazione della sua giovinezza, «un pezzetto di sé lontanissimo che misteriosamente si rinnova», e perciò desiste. [...]
Questo brano è tratto dalla tesi:
Il bestiario di Dino Buzzati
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Informazioni tesi
Autore: | Andrea Suverato |
Tipo: | Laurea I ciclo (triennale) |
Anno: | 2012-13 |
Università: | Università degli studi di Genova |
Facoltà: | Scienze Umanistiche |
Corso: | Lettere |
Relatore: | Franco Contorbia |
Lingua: | Italiano |
Num. pagine: | 50 |
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