Infedeltà patrimoniale e appropriazione indebita: una "convivenza" difficile.
La condotta incriminata
La condotta, di tipo commissivo, consiste nel “compiere o concorrere a deliberare un atto di disposizione di beni sociali dannoso per la società”.
Ad essere incriminata non è dunque qualsiasi offesa al patrimonio della società, ma solo quella che si realizzata tramite un atto di disposizione dei beni sociali adottato quantomeno con il concorso di uno dei soggetti attivi.
Si discute se possano rientrare nel concetto di “atti di disposizione dei beni sociali” le ipotesi di assunzione di obbligazioni a carico del patrimonio sociale. Alcuni autori notano come “tali obbligazioni, sia pure indirettamente, si traducano pur sempre in una disposizione di beni sociali essendo il patrimonio sociale a doverne sopportare il relativo costo”.
Per quanto riguarda invece quegli atti che incidono nell’organizzazione della società (aumento di capitale, fusione o scissione di società), l’indirizzo prevalente è orientato a ritenere che non rientrino nell’attuale descrizione della condotta tipica, nonostante anche rispetto ad essi sia immaginabile l’esistenza di un conflitto di interessi da parte dei soggetti posti al vertice dell’organizzazione societaria. Secondo altri autori “sono perfettamente prospettabili ipotesi nelle quali operazioni sociali (si pensi al lancio di un’O.P.A.) vengano dagli amministratori intraprese per il perseguimento di un interesse extrasociale e conflittuale, e prima ancora di comportare qualsiasi atto dispositivo di bene sociali, provochino un grave pregiudizio patrimoniale”.Aggiunge ancora l’opposta dottrina, che la scelta è in linea con la nuova dimensione dell’offesa; si è detto, infatti, che “fin quando si tratta di operazioni che non implicano conseguenze sul patrimonio sociale, l’ampliamento ad esse annacquerebbe il profilo tipico dell’offesa al patrimonio, che costituisce l’oggetto tutelato dall’incriminazione. Se invece ad esempio per l’aumento del capitale gli amministratori devono ricorrere al mercato di capitali, le somme impegnate a tal fine costituiscono certo atti dispositivi e come tali ricadono nella portata della norma incriminatrice.
Dalla condotta tipica sembra infine esulare la possibile rilevanza penale di un comportamento omissivo, rimandando infatti ad un comportamento attivo, l’espressione “compiono o concorrono a deliberare”. Sorge così il rischio che possano prefigurarsi vuoti di tutela, tutte le volte in cui il titolare del potere gestorio, in conflitto di interessi, cagioni intenzionalmente un danno patrimoniale alla società amministrata, poiché decide di non compiere una determinata operazione per essa vantaggiosa, e ciò non avvenga a seguito della offerta o promessa di utilità. In quest’ultimo caso, infatti, ben rientrerebbe nella fattispecie descritta dall’art. 2635 c.c, nella quale lo stesso legislatore si è premuto di specificare la condotta punibile nella duplice forma del “compimento di atti” e di “omissione” degli stessi.
Infine al secondo comma si estende la punibilità al fatto commesso “in relazione a beni posseduti o amministrati dalla società per conto di terzi, cagionando a questi ultimi un danno patrimoniale”. Questa autonoma fattispecie di infedeltà patrimoniale si caratterizza, rispetto a quella considerata dal primo comma, per il fatto che la condotta tipica ha ad oggetto anziché "beni sociali", "beni posseduti o amministrati dalla società per conto di terzi", al fine di assicurare una protezione anche ai c.d. patrimoni gestiti, i quali risultano essere molto spesso esposti ad atti di mala gestio. In tal modo la tutela viene estesa a tutti i beni amministrati tramite lo strumento societario, indipendentemente dal fatto che si tratti di beni appartenenti alla stessa società o a terzi. Questa identità di condotte d'infedeltà descritte dalla norma non sussiste invece con riguardo all'elemento soggettivo del reato, in quanto il legislatore, omettendo il riferimento all'intenzione di causare un danno patrimoniale ai terzi, consente la sopravvivenza del dolo eventuale a differenza della fattispecie di infedeltà prevista dal primo comma dell'art. 2634 c.c. in cui essa era esclusa.
Ma la mancanza del requisito dell'intenzionalità è contestabile in quanto, da un lato contrasta innanzitutto con l’identico regime sanzionatorio previsto dalla norma in entrambe le ipotesi d'infedeltà e dall'altro, crea una diversità sul piano dei valori tutelati, poiché i requisiti soggettivi sono più rigorosi quando il danno è cagionato alla società stessa rispetto a quelli richiesti quando i beni, anche se gestiti dalla società, fanno capo ai terzi.
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Infedeltà patrimoniale e appropriazione indebita: una "convivenza" difficile.
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Informazioni tesi
Autore: | Claudia Giacomini |
Tipo: | Tesi di Laurea Magistrale |
Anno: | 2008-09 |
Università: | Università degli Studi di Bologna |
Facoltà: | Giurisprudenza |
Corso: | Giurisprudenza |
Relatore: | Filippo Sgubbi |
Lingua: | Italiano |
Num. pagine: | 126 |
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