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L'etnografia va a Hollywood: cultura e conoscenza nelle organizzazioni

La (impossibile) direzione

A partire dagli anni novanta c’è stata un’esplosione dell’interesse per la gestione della conoscenza. Si cerca di identificare, sviluppare, aggiornare e disseminare il sapere strategicamente rilevante per l’impresa e si tende a considerarlo come un oggetto svincolato dal contesto, passibile di essere manipolato. Le organizzazioni sono viste come macchine che processano informazioni quantificabili e codificate che, per mantenere la competitività, devono renderle disponibile per tutti i lavoratori. Secondo questa visione, le tecnologie dell’informazione e della comunicazione sono considerate perfette per rendere il sapere facilmente accessibile a tutti i lavoratori.
Purtroppo, questa prospettiva era condannata a fallire: l’informazione senza una cornice è soltanto dei dati, allo stesso tempo troppi e insufficienti.
Troppi perché formano un’infinità di pezzi incapaci di raccontare pienamente come le persone realizzano il loro lavoro, che assomigliano più a dei rumori.
D’altra parte, sono insufficienti poiché anche se fosse possibile immagazzinare tutta l’informazione prodotta dai lavoratori – come in un’utopia/distopia tecnologica – parte del nostro sapere non è oggettivabile. Nelle parole di Polanyi (1966) “possiamo conoscere più di quanto possiamo esprimere”.
L’autore afferma l’esistenza di una frazione della conoscenza che il proprio soggetto non è consapevole e che può soltanto essere dimostrata attraverso elaborazioni riflessive e azioni.
Questo rappresenta la radice dell’opera di Nonaka (2008) che imputa alla visione della conoscenza come informazione oggettiva l’incapacità di cogliere gli insight e le intuizioni (tacite) dei lavoratori. Per risolvere questa mancanza, l’autore delinea un modello di apprendimento secondo il quale la conoscenza tacita potrebbe essere catturata, trasformata in esplicita, condivisa, e alla fine internalizzata dagli individui e dalle organizzazioni. Nonostante il carattere attraente, questo approccio mantiene una visione reificata del sapere.
Questo è considerato come esistente all’interno della mente degli individui passibile di essere esteriorizzato, ma non si valutano le variazione e le resistenze presente nel suo trasferimento e traduzione.
In più, Wilson (2002) afferma che Nonaka (2008) nella costruzione del suo schema ha interpretato l’idea di Polanyi (1966) in forma sbagliata. Poiché la conoscenza tacita non può essere catturata, neanche dal proprio soggetto, ma soltanto ri-conosciuta attraverso un processo riflessivo, si dovrebbe parlare piuttosto di conoscenza implicita. Questa si avvicina quindi a ciò che si da per scontato, come ad esempio, il modo che un certo gruppo sociale ritiene appropriato per comportarsi verso l’autorità.
La “guerra per il talento” è un’altra caratteristica della nuova economia. Siccome il capitale umano/intellettivo è divenuto centrale nella produzione, le imprese cercano di assumere, a tutti i costi, il personale più qualificato Tuttavia, la creazione di nuove idee è un processo sociale che dipende dall’interazione. Per usare una metafora dal mondo sportivo, avere i “migliori” giocatori non porta necessariamente a una squadra vincente, quindi, è necessario fare attenzione al contesto e al capitale sociale. Per esempio, un ambiente lavorativo troppo competitivo in cui i salari sono basati secondo le performance individuali può essere dannoso per la condivisione della conoscenza.
Non si intende con questo negare l’importanza delle competenze individuali, bensì ricordare che per capire come i lavoratori agiscono si deve comprendere l’ambiente in che si trovano. Come è stato scoperto già a Hawthorne, il processo lavorativo dipende dalle imposizioni e regole del gruppo ed anche dagli interessi individuali che possono essere addirittura opposti alle idee dei superiori. Quindi, è necessario capire il contesto sociale e il suo impatto nella circolazione, produzione e condivisione della conoscenza ed abbandonare un progetto di puro controllo del personale in favore di uno che sia consapevole della loro dimensione attiva come attori sociali competenti. Questo si lega al classico problema del modello principale-agente.
Fino a che punto si può lasciare il personale libero e allo stesso tempo mantenere certe norme? Il lavoro di Bryan e Joyce (2005) suggerisce un nuovo modello chiamato 21st century organization in cui l’informalità si combina con un maggiore controllo sulla produttività.

Questo brano è tratto dalla tesi:

L'etnografia va a Hollywood: cultura e conoscenza nelle organizzazioni

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Informazioni tesi

  Autore: Pedro Eduardo do Nascimento Monteiro
  Tipo: Laurea I ciclo (triennale)
  Anno: 2008-09
  Università: Università degli Studi di Urbino
  Facoltà: Sociologia
  Corso: Sociologia
  Relatore: Emanuela Ciuffoli
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 44

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