La riforma dei reati di corruzione nella tutela della Pubblica Amministrazione
L'istigazione alla corruzione
L'articolo 322 c.p., derubricato "istigazione alla corruzione", ha subito alcune importanti innovazioni ad opera della riforma del 1990; successivamente, in particolare con l'intervento del 2012, non sono state apportate che modifiche marginali, volte a coordinare tale norma con l'attuale struttura dell'articolo 318 e con l'applicabilità di quest'ultimo anche all'incaricato di pubblico servizio che non riveste la qualità di pubblico impiegato. Per questa ragione tratteremo in questo paragrafo le questioni principali relative alla norma in questione, lasciando ai successivi paragrafi e capitoli solo alcuni rinvii relativi "aggiustamenti" apportati dalla legge c.d. Severino, oggetto precipuo del presente scritto.
Il codice penale del 1930 prevedeva all'articolo 322 il delitto di istigazione alla corruzione attiva, punendo il privato che offrisse o promettesse "denaro od altra utilità come retribuzione non dovuta" al soggetto pubblico per indurlo a compiere un atto conforme (1° comma) o contrario (2° comma) ai propri doveri d'ufficio, purché la promessa o l'offerta non fossero accettate.
La legge 86 del 1990 ha riscritto la norma in questione apportando alcune modifiche ai previgenti due commi, nonché prevedendo due ulteriori commi, il terzo e il quarto, volti ad incriminare le condotte di istigazione poste in essere dal pubblico ufficiale.
Il testo elaborato nel '90 è il seguente: art: 322 ter – Istigazione alla corruzione – Chiunque offre o promette denaro od altra utilità non dovuti ad un pubblico ufficiale o ad un incaricato di un pubblico servizio che riveste la qualità di pubblico impiegato, per indurlo a compiere un atto del suo ufficio, soggiace, qualora l'offerta o la promessa non sia accettata, alla pena stabilita nel primo comma dell'articolo 318, ridotta di un terzo.
Se l'offerta o la promessa è fatta per indurre un pubblico ufficiale o un incaricato di un pubblico servizio ad omettere o a ritardare un atto del suo ufficio, ovvero a fare un atto contrario ai suoi doveri, soggiace, qualora l'offerta o la promessa non sia accettata, alla pena stabilita nell'articolo 319, ridotta di un terzo.
La pena di cui al primo comma si applica al pubblico ufficiale o all'incaricato di un pubblico servizio che riveste la qualità di pubblico impiegato che sollecita una promessa o dazione di denaro od altra utilità da parte di un privato per le finalità indicate dall'articolo 318.
La pena di cui al secondo comma si applica al pubblico ufficiale o all'incaricato di un pubblico servizio che sollecita una promessa o dazione di denaro od altra utilità da parte di un privato per le finalità indicate dall'articolo 319.
Le modifiche operate nel '90 relative ai primi due commi sono limitate al venir meno del riferimento alla retribuzione: se prima il disposto parlava di "denaro od altra utilità" come retribuzione non dovuta", dopo la riforma la formula si riferisce solo a "denaro od altra utilità non dovuti". Sebbene il riferimento alla retribuzione (e quindi implicitamente alla proporzionalità delle prestazioni corruttive) sia stato eliminato, la dottrina è fin da subito stata concorde nel ritenere che, vista la rilevanza dell'idea della "proporzionatezza tra le due corrispettive prestazioni del privato o del pubblico ufficiale" che "caratterizza in generale tutte le forme di corruzione", tale requisito vada comunque accertato anche nei casi di istigazione.
La previsione delle incriminazioni di cui ai commi terzo e quarto è stata accolta in modo positivo dalla dottrina: le stesse infatti, volte ad prevedere l'ipotesi di istigazione alla corruzione realizzata dal soggetto pubblico (pubblico ufficiale e incaricato di pubblico servizio il quale, nell'ipotesi di istigazione alla corruzione passiva impropria, doveva rivestire la qualità di pubblico impiegato) parificavano "i due versanti della corruzione sul piano della corruzione anticipata", risolvendo così i dubbi che in precedenza si erano sviluppati circa la punibilità del tentativo di corruzione passiva. Si riteneva inoltre che l'introduzione dell'ipotesi di istigazione alla corruzione operata dal soggetto pubblico potesse rilevarsi utile sul piano politico-criminale: infatti la norma, non prevedendo una sanzione per il privato che riceve le sollecitazioni del soggetto pubblico, poteva aver l'effetto di incentivare le denunce.
La norma nella sua configurazione attuale (anche quindi dopo la riforma del 2012) prevede ai primi due commi l'ipotesi di istigazione alla corruzione attiva in relazione alla quale il soggetto attivo e il privato corruttore. Le ipotesi dei commi 3° e 4°, prevedendo l'istigazione alla corruzione passiva, vedono come soggetto attivo l'intraneus, cioè il soggetto pubblico.
Per quanto riguarda la natura del reato in questione parte della dottrina ritiene scorretto parlare di istigazione in quanto tale termine si riferisce a chi, nell'ambito del concorso di persone nel reato, fa sorgere o cerca di rafforzare l'altrui proposito criminoso; l'articolo in discussione prevedrebbe invece l'incriminazione di condotte che, dirette in modo idoneo e non equivoco alla realizzazione della corruzione del pubblico ufficiale (primi due commi) e del privato (commi tre e quattro), sarebbero riconducibili allo schema del delitto tentato. Il legislatore mostrerebbe quindi la volontà di incriminare l'ipotesi tentata con una figura autonoma di reato consumato che, quindi, laddove si verifichino tutti gli elementi di cui all'articolo 322, dovrà esser considerato consumato. [...]
Questo brano è tratto dalla tesi:
La riforma dei reati di corruzione nella tutela della Pubblica Amministrazione
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Informazioni tesi
Autore: | Ludovico Bosso |
Tipo: | Tesi di Laurea Magistrale |
Anno: | 2013-14 |
Università: | Università degli Studi di Torino |
Facoltà: | Giurisprudenza |
Corso: | Giurisprudenza |
Relatore: | Marco pelissero |
Lingua: | Italiano |
Num. pagine: | 224 |
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