“Otello o sia il Moro di Venezia" di Salvatore Viganò

L’arte di Viganò segnò il culmine della riforma nella danza che, iniziata verso il 1760 da Jean George Noverre e da Gaspare Angiolini, tese a conferire espressività e forza drammatica ai movimenti dei ballerini. Dalla fine del 1600 in poi, infatti, la danza, utilizzata in un primo tempo all’interno delle opere liriche per illustrarne i momenti salienti, era stata via via slegata dal resto della rappresentazione, arrivando nella metà del diciottesimo secolo ad essere intesa dai coreografi soltanto come puro “divertissement”, senza alcuno sviluppo narrativo. Il virtuosismo del ballo e la mancanza d’azione nella danza erano stati però deplorati da molti teorici, fra cui Francesco Algarotti nel suo Saggio sopra l’opera in musica del 1755: “Cotesto ballo non è poi altro, a considerarlo in se medesimo, che un capriolare sino all’ultimo sfinimento, un saltar disonesto che non dovrebbe aver mai l’applauso delle persone gentili, una monotonia perpetua di pochissimi passi e di pochissime figure… La danza dee essere una imitazione che, per via dei movimenti musicali del corpo, si fa delle qualità e degli affetti dell'animo; essa ha da parlare continuamente agl’occhi, ha da dipingere col gesto. E un ballo ha da avere anch’esso la sua esposizione, il suo nodo, il suo scioglimento, ha da essere un compendio sugosissimo di un’azione” Il cambiamento avvenne appunto con Noverre ed Angiolini, i quali, ritenendo insoddisfacenti i pretesti narrativi usati dai loro contemporanei per costruire una coreografia, segnarono l’avvio del “ballet d’action”.