Psicologia e cure palliative. Storie famigliari di pazienti neoplastici in fase terminale.
L’Hospice
“Hospice” è il termine inglese che oggi indica il luogo dove si curano i malati terminali, ed è il nome del movimento culturale (l’Hospice Movement) che ha portato alla nascita della medicina palliativa.
Tale struttura di ricovero può essere inserita in un normale ospedale o essere autonoma e separata da esso; ciò che la differenzia da un normale reparto ospedaliero è la filosofia d’intervento, gli obiettivi che si pone e l’architettura.
L’hospice è riservato ai malati terminali che, per qualche ragione, non possono essere più curati in casa ed il suo obiettivo è quello di curare la qualità e non la quantità di vita.
Anche l’architettura appare molto lontana da quella dell’ospedale tradizionale: poiché dà notevole importanza alla privacy, dispone di spazi privati e comuni, dove i familiari possono restare col malato o tra loro e dove può essere dato libero sfogo ai sentimenti.
Ai familiari è permesso di risiedere col malato, di cucinare i cibi che egli preferisce, di dormire con lui; non esistono limitazioni né di numero, né d’orario alle visite e l’arredamento è quello di una casa con camere che possono essere personalizzate.
L’hospice non è il luogo dove le persone vanno a morire, né tanto meno è rivolto alla lungo degenza, ma si pone come una struttura residenziale in grado di fornire cure palliative e assistenza qualificata senza accanimento terapeutico.
E’ il luogo adeguato ad ospitare quei pazienti che necessitano di assistenza più intensa che non trovano soluzione al domicilio o per l’inadeguatezza dello stesso, o per la mancanza di un nucleo familiare in grado di fronteggiare situazioni più impegnative.
Le attività svolte all’interno dell’hospice riguardano l’assistenza globale alla persona malata e alla sua famiglia, comprendendo sia prestazioni di tipo medico-infermieristico, sia interventi volti a migliorare la qualità della vita in senso più generale: attività ricreative e d’intrattenimento, di sostegno, d’aiuto alla famiglia e di disbrigo di pratiche burocratiche.
L’interesse per un’assistenza strutturata ed organizzata per i malati terminali, è fatto del tutto recente nel nostro paese; non altrettanto lo è nei paesi anglosassoni, soprattutto in Inghilterra, dove per tradizione già nel Medioevo esistevano luoghi di ricovero e di cura per i malati terminali.
“La realtà odierna ci dice che metà delle persone ammesse in ospedale muoiono entro due anni dal ricovero, mentre il numero di persone che muore in casa è andato progressivamente diminuendo; da ciò l’evidenza della necessità di dover fornire un’assistenza ospedaliera in ambiente adeguato, a pazienti affetti da gravi malattie inguaribili, come il cancro in fase avanzata” (Corli,1988).
L’hospice è una struttura di ricovero nata in Gran Bretagna e diffusa in tutti i paesi anglosassoni; il primo hospice moderno fu il Saint Cristopher’s, sorto nel 1967 alla periferia di Londra.
Volendo sottolineare le principali finalità dell’hospice possiamo ricordare le seguenti:
- definizione e realizzazione di un programma di “cure palliative” personalizzato e orientato a migliorare la qualità della vita residua del paziente attraverso una risposta globale ed efficace ai suoi bisogni;
- realizzazione di una valida alternativa alla casa quando questa non è, temporaneamente o definitivamente, idonea da accogliere il malato;
- accompagnamento alla morte;
- preparazione e supporto al lutto dei familiari;
- formazione e preparazione pratica del personale;
- rinnovamento della pratica medica in termini umanistici.
Una profonda convinzione, tutt’altro che banale, alla base della “filosofia” dell’hospice è quella di considerare la morte come un fatto naturale, non come risultato di una patologia.
In Italia una diffusa incomprensione culturale nei confronti delle cure palliative e dell’hospice ha enormemente ritardato la presa di coscienza delle problematiche connesse all’assistenza del malato terminale; “… i contenuti del programma Hospice, la filosofia delle Cure Palliative sono dirompenti nei confronti della medicina tradizionalmente votata a debellare la malattia” (Nicoscìa,1997).
Il rapporto medico-paziente nell’hospice, infatti, risulta enormemente cambiato ed è, per così dire, paritario; il medico riconosce la propria impotenza di fronte a patologie incurabili, mentre la centralità del paziente, la sua autonomia decisionale si pongono come momenti di rottura e di frattura rispetto ad una tradizione precedente.
Un altro grosso ostacolo alla diffusione degli hospices in Italia è rappresentato dal fatto che, nelle università, le cure palliative non esistono come disciplina istituzionale e non sono oggetto di insegnamento accademico nelle facoltà mediche.
Questa carenza ha ostacolato la diffusione degli hospices ancor più che delle Unità Operative di Cure Palliative Domiciliari come afferma Nicoscìa: “Alla nascita di queste ultime è stato sufficiente il connubio fra le inclinazioni individuali di medici, soprattutto terapisti del dolore e oncologi, e il supporto di fondazioni o associazioni, solo in tempi successivi queste iniziative sono confluite nell’ambito delle prestazioni erogate da parte delle Unità Sanitarie Locali” (Nicoscìa, 1997).
Per gli hospices non vale lo stesso discorso; essendo strutture di degenza, esse richiedono la volontà e l’impegno di diverse persone: medici, amministratori, politici e disponibilità finanziarie maggiori.
Sul modello del “St. Christopher’s”, circa 10 anni dopo la nascita delle prime Assistenze Domiciliari Organizzate è stato creato il primo hospice italiano, il “Pio Albergo Trivulzio” di Milano, a cui ha fatto seguito quello della Domus Salutis di Brescia; l’originalità e la completezza di questa prima realizzazione italiana, dovuta all’impegno economico privato dell’ordine delle “Ancelle della Carità”, non è stata, però, facilmente replicabile in altre città e contesti sociali.
Questo brano è tratto dalla tesi:
Psicologia e cure palliative. Storie famigliari di pazienti neoplastici in fase terminale.
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Informazioni tesi
Autore: | Sara Spada |
Tipo: | Tesi di Laurea |
Anno: | 2001-02 |
Università: | Università degli Studi di Torino |
Facoltà: | Psicologia |
Corso: | Psicologia clinica e di comunità |
Relatore: | Giuseppe Andreis |
Coautore: | Paola Minacapelli |
Lingua: | Italiano |
Num. pagine: | 237 |
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