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PrEP: lo stigma paradossale. L'esperienza del Milano Check Point

L’HIV e le strategie preventive. La terapia pre-esposizione (PrEP)

La sigla HIV (Human Immunodeficiency Virus) si riferisce a due specie di retrovirus, HIV-1 e HIV-2, di cui solo la prima – la forma più aggressiva – diffusa al di fuori del continente africano. Si ritiene che l’HIV derivi da un retrovirus analogo, endemico nei primati non umani (SIV, Simian Immunodeficiency Virus) il quale avrebbe effettuato il salto di specie in Africa occidentale, probabilmente in Congo, nella prima metà del secolo scorso (Worobey et al., 2008).
Il bersaglio dell’HIV sono le cellule ricche di recettori per la proteina CD4, particolarmente numerosi in alcuni tipi di linfociti. Poiché porta a una diminuzione di questi ultimi, rispetto ad altri virus l’HIV presenta la particolarità di rendere il sistema immunitario meno efficace (immunodepressione). Nel medio-lungo termine la persona con HIV è più suscettibile di sviluppare ulteriori infezioni (dette opportunistiche) o alcuni tipi di tumore, causati da patogeni spesso già presenti nell’organismo ma che, in condizioni normali, il sistema immunitario riesce a mantenere sotto controllo. Quest’ultima condizione viene definita sindrome da immunodeficienza acquisita (Acquired ImmunoDeficiency Syndrome, AIDS).
La trasmissione avviene principalmente tramite il contatto tra fluidi corporali infetti e mucose o per contatto diretto tra fluidi, quindi attraverso rapporti sessuali non protetti o in caso di trasfusioni con sangue infetto o condivisione di siringhe infette. Esiste una grande variabilità tra individui e, come per le altre infezioni, sono documentati casi di immunità innata (Altfeld & Gale, 2015), ma in genere l’infezione non trattata porta allo sviluppo della sindrome conclamata nell’arco di circa dieci anni e al decesso del soggetto nel lungo termine. Sebbene fosse controversa nei primi anni dopo l’individuazione del virus la relazione di causa-effetto tra l’infezione da HIV e lo sviluppo della sindrome, esiste oggi un generale consenso scientifico in merito (Gallo & Montaigner, 2003).
Descrizioni di sintomatologie compatibili erano già presenti nella letteratura medica nei decenni precedenti, ma è solo con la comparsa dei primi casi negli Stati Uniti, nei primi anni Ottanta, che tale condizione viene concettualizzata come sindrome. Nel 1987 viene approvato il primo farmaco antiretrovirale specifico per l’HIV, l’AZT, che presentava un’efficacia limitata e importanti effetti collaterali, ma dimostrava di prolungare di alcuni anni la vita dei pazienti. Nei primi anni Novanta seguono DDI e DDC, trattamenti che in maniera simile inibivano gli enzimi utilizzati dal virus per replicarsi, ma con meno effetti indesiderati. La vera svolta si verifica però a metà degli anni Novanta, quando vengono introdotte le prime terapie HAART (Highly Active AntiRetroviral Therapy). Si tratta di diverse classi di farmaci che inibiscono ciascuno fasi differenti della replicazione del virus e pertanto sono utilizzati in combinazione negli schemi terapeutici. La somministrazione della terapia permette il sostanziale azzeramento della carica virale, in genere nell’arco di circa 24 settimane, definito come carica virale non rilevabile ovvero inferiore a 50 copie per millilitro. Quando a questa condizione si accompagna un livello di linfociti CD4 superiore a 350 unità per microlitro, viene di fatto impedito lo sviluppo della sindrome (Ministero della Salute, Linee Guida Italiane sull’utilizzo della Terapia Antiretrovirale e la gestione diagnostico-clinica delle persone con infezione da HIV- 1, aggiornamento 2017).

L’introduzione delle HAART ha comportato importanti cambiamenti anche sulle conseguenze psicosociali dell’epidemia da HIV: esse infatti non solo prevengono l’insorgere della sindrome da immunodeficienza, consentendo alle persone con HIV una speranza di vita comparabile a quella delle persone sieronegative, ma riducono drasticamente anche le probabilità di contagio per via sessuale. La ricerca ha infatti dimostrato che l’HIV non si trasmette durante rapporti sessuali anche non protetti se il partner sieropositivo ha una carica virale non rilevabile (Eisinger et al., 2019). In considerazione di questi fattori, negli anni l’approccio farmacologico all’HIV si è evoluto da un modello più strettamente terapeutico, che prevedeva la somministrazione dei farmaci solo ai soggetti a rischio di sviluppare la sindrome, a un approccio preventivo che prevede il trattamento precoce di tutte le persone con HIV, anche asintomatiche, a partire dalla diagnosi di sieropositività (Therapy as Prevention, TasP).
Un ulteriore sviluppo importante dell’approccio TasP si è avuto a partire dai primi anni Dieci, quando si è prima constatato e poi dimostrato che un particolare farmaco antiretrovirale con il nome commerciale di Truvada (combinazione dei principi attivi emtricitabina e tenofovir disoproxil) possiede la capacità di impedire al virus di entrare nell’organismo per trasmissione sessuale, grazie alla caratteristica di distribuirsi in concentrazioni particolarmente elevate nelle mucose. La ricerca ha dimostrato che, in caso di corretta assunzione e aderenza alla terapia, l’efficacia preventiva del trattamento con Truvada è superiore al 99% (Anderson et al., 2012) e questo ha portato al suo utilizzo in uno schema di profilassi noto come PrEP (Pre-Exposure Prophylaxis). La PrEP non deve essere confusa con la PEP (Post-Exposure Prophylaxis), profilassi post esposizione, che consiste nel somministrare farmaci abitualmente utilizzati nella terapia delle persone con HIV dopo un evento a rischio, per impedire di insediarsi al virus eventualmente già entrato nell’organismo. La PrEP prevede invece l’assunzione del Truvada in due diverse modalità: con cadenza quotidiana, una compressa al giorno, oppure in concomitanza con un rapporto a rischio, secondo uno schema di somministrazione scalare nei giorni precedenti e seguenti. Le due modalità presentano la stessa efficacia e si differenziano in pratica solo per l’adattabilità ai diversi stili di vita del soggetto.

Dal punto di vista della problematica di salute pubblica, diversi Paesi adottano strategie diverse. Mentre in alcuni Paesi europei la somministrazione della PrEP è coperta dal sistema sanitario nazionale, in altri – tra i quali l’Italia – è possibile la prescrizione del farmaco ma il costo è a carico del paziente, a meno che quest’ultimo non sia inserito in un protocollo di sperimentazione in ambito ospedaliero. Da alcuni anni è scaduto il brevetto sul farmaco costituito dalla combinazione di emtricitabina e tenofovir e sono quindi disponibili anche farmaci generici a un costo notevolmente inferiore. Questo da un lato ha consentito di ampliare la platea degli utenti, ma dall’altro ha portato a un incremento dell’utilizzo “fai-da-te” – fenomeno noto come Wild PrEP – anche grazie alla relativa facilità con cui è possibile reperire il farmaco online tramite siti Internet. L’assunzione fai-da-te, senza controllo medico, può causare effetti potenzialmente dannosi: oltre a casi di contagio, un’errata somministrazione o una mancata aderenza possono portare anche all’insorgere di resistenze ad altri farmaci con gli stessi o simili principi attivi, se il soggetto deve iniziare una terapia dopo un’eventuale sieroconversione.
Un’indagine online a livello europeo è stata condotta nel 2016 dall’Università di Amsterdam, in collaborazione con l’alleanza internazionale di associazioni PLUS (Flash Prep in Europe Online Survey) per sondare il livello di conoscenza della PrEP e la disponibilità a iniziare un percorso. Su 15.880 rispondenti in tutta Europa, il 77% degli uomini MSM ha dichiarato di sapere già cosa fosse la PrEP e l’80% di questi ha dimostrato di avere informazioni corrette. L’85% riteneva che la PrEP dovesse essere erogata nell’ambito di un programma che comprenda, oltre ai test e alla terapia, anche un supporto tra pari.
Nella stessa ottica di ampliare la prevenzione quanto più possibile, alle strutture pubbliche si sono affiancati negli ultimi anni centri gestiti da organizzazioni nonprofit che erogano la PrEP. Al settembre 2020, tra strutture ospedaliere e centri nonprofit risultano attivi in Italia circa 40 sportelli PrEP (sito www.prepinfo.it, consultato il 30 settembre 2020). Di particolare interesse è il network internazionale dei Check Point, presente in varie città d’Europa come Barcellona o Parigi e, in Italia, Bologna e Milano. I Check Point sono centri gestiti da organizzazioni non-profit con il sostegno delle istituzioni locali e operati in prevalenza da volontari dove, in un ambiente protetto, informale e non giudicante, è possibile effettuare in maniera rapida e anonima il test per l’HIV e per altre infezioni sessualmente trasmissibili (IST). Nei Check Point è inoltre possibile essere arruolati in programmi per la somministrazione della PrEP che, in alcuni casi, prevedono l’erogazione del farmaco a titolo gratuito grazie a donazioni di case farmaceutiche.

Questo brano è tratto dalla tesi:

PrEP: lo stigma paradossale. L'esperienza del Milano Check Point

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Informazioni tesi

  Autore: Claudio Ferrara
  Tipo: Laurea I ciclo (triennale)
  Anno: 2019-20
  Università: Università Telematica "E-Campus"
  Facoltà: Psicologia
  Corso: Scienze e tecniche psicologiche
  Relatore: Mario Pesce
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 82

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