Un modello di recupero dei fienili delle Valli del Natisone
L’architettura dei luoghi: il “regionalismo critico”
Il progetto d’architettura in un ambiente storicamente stratificato, ricco di fatti e di una cultura autonoma quasi del tutto cancellata, ci introduce ai concetti di regione e regionalismo.
Con il primo intendiamo una porzione di spazio dai confini labili, impossibili da definire, che racchiudono una precisa cultura della costruzione e dell’uso degli spazi, co-determinata dalla sovrastruttura di consuetudini, in cui l’unica regola sembra essere la trasmissione dei saperi durante le generazioni.
Il secondo concetto, invece, fa riferimento ad un’attitudine progettuale contemporanea, che consiste in un rifiuto al totale assorbimento dell’attualità globalizzante, caratterizzata dalla massimizzazione di produzione e di consumi, abbracciando, invece, un approccio critico di intervento che risponda ad un bisogno di identità con i luoghi. Ciò non comporta affatto una ricerca di un anacronistico linguaggio finto-antico o di un revival del vernacolo, ma quella di un preciso metodo che pone in relazione oggetti partoriti in epoche ben diverse, ancorandoli saldamente al contesto esistente.
Come spiega Marco De Michelis, «l’incontro tra l’architetto e la specificità del contesto determina una condizione di frizione, di sfregamento, di attrito. In altri termini, la visione dell’architetto non agisce nel vuoto, ma “reagisce” di fronte al contesto preesistente. Frampton proponeva questa pratica come una azione virtuosa, chiedendo all’architetto di non essere cieco né tantomeno indifferente, ma consapevole del fatto che il progetto architettonico determina in ogni modo una trasformazione di questo contesto e che questo contesto opporrà una qualche forma di resistenza. In questa dialettica può prendere forma un’architettura che trae forza ed energia dalla frizione prodotta».
In questo ambito si è soliti sovrapporre, errando, alla nozione di regionalismo quella di vernacolare. Quest’ultimo indica l’istintiva ed innocente semplicità dell’acritico adattarsi alle necessità, «una manifestazione culturale pre-estetica, una pre-architettura», come lo definì Kenneth Frampton; si tratta di una produzione svincolata da ogni legge esterna e da qualsiasi regola di mercato.
A tal proposito, lo stesso Frampton richiama Adolf Loos, il quale, agli inizi del secolo scorso, riportava di un contadino che stava costruendo un tetto; l’architetto gli chiese se ciò che stava facendo fosse bello o brutto sentendosi rispondere che era un tetto uguale a quello che costruiva suo padre, suo nonno e così via.
Il regionalismo sottende, invece, una tendenza interpretativa, un’attitudine critica nei confronti del primo, una manifestazione consapevole e non innocente, che non può essere in alcun modo vernacolare, appunto.
L’architetto e poeta austriaco Friedrich Achleitner, citato da François Burkhardt, sostiene la tesi secondo cui qualsiasi architettura possa essere considerata regionale, in quanto per la sua stessa definizione, si sviluppa sempre a partire da un luogo specifico, per poi generalizzarsi.
Tale questione, parzialmente condivisibile, trae il suo fondamento dal concetto stesso di costruire, inteso come radicamento topologico di una serie di elementi fra loro giustapposti. Sarebbe, quindi, corretto estendere tale argomentazione all’architettura generalmente intesa, sospendendola, invece, di fronte alla manifestazione puramente scenografica, autoreferenziale, ossessionata dall’immagine ed atopica, nel senso priva di luoghi, che negli ultimi decenni popola le nostre città e che con il concetto di architettura ha molto poco a che fare.
Questa sensibilità nell’inserire un oggetto contemporaneo si deve misurare non solamente con il contesto, con il linguaggio delle forme, con la scelta dei materiali e delle tecniche, ma anche con la stessa idea di abitare. Infatti, scrive Frampton in Regionalismo dell’architettura, «l’edilizia e l’architettura hanno un rapporto diretto con la natura più di qualsiasi altra forma d’arte. La natura non comprende soltanto il topos, ma anche il clima e la luce, questi aspetti della natura ai quali la forma architettonica è particolarmente sensibile. Tutto questo è praticamente ovvio, eppure tendiamo a dimenticare come la civiltà universale (cioè la tecnologia universale), sotto forma dei moderni servizi meccanici, aria condizionata, illuminazione artificiale, e così via, tenda a eliminare proprio questi elementi, che altrimenti rifletterebbero le caratteristiche di un determinato luogo, clima e cultura».
Tutto questo ricordando che l’oggetto architettonico si rivela per diversi livelli di conoscenza, detenendo la particolarità di essere percepibile dall’intero apparato sensoriale; pertanto, anche la temperatura e l’odore degli ambienti, le sonorità dei materiali, il movimento dell’aria dovrebbero essere parametri considerati al pari degli altri, evitando la progettazione di un manufatto che, anche se integrato dal punto di vista morfologico e compositivo, si riveli totalmente avulso nel considerare la fruizione degli spazi domestici; ciò, ovviamente, senza dover rinunciare agli standard di benessere che il contemporaneo necessariamente impone. Poiché, come afferma l’antropologo Franco La Cecla, «il genocidio culturale si accompagna quasi sempre alla cancellazione di un modo di vivere e di abitare. E le culture si differenziano tra di loro anzitutto nel tipo di uso che fanno dello spazio».
Tuttavia, un forte ostacolo nel raggiungimento di un’equilibrata correttezza etica di intervento proviene spesso sia da quei regolamenti amministrativi che troppo spesso inducono ad un becero mimetismo, sia dall’analfabetismo della committenza. Kenneth Frampton, durante un intervista di Burkhardt, scrive a proposito: «senza una committenza educata, o ancor meglio senza una committenza che voglia davvero creare qualcosa, è molto difficile per gli architetti svolgere un lavoro davvero convincente, perché manca la base più profonda che, credo, consente al loro lavoro di diventare realtà».
La Cecla, invece, trasla le responsabilità verso la figura dell’architetto, affermando che non vi è futuro interessante nelle pratiche architettoniche ed urbanistiche se non previa trasformazione generale delle competenze del progetto, che diano moltissimo rilievo al contesto.
La presa di coscienza nella direzione di una ricerca a tale sensibilità critica deve però investire tutti sulla scala mondiale, soprattutto in un momento storico nel quale le consuetudini del vivere, raccolte nelle infinite culture locali, vanno incontro ad un definitivo ed annunciato annientamento, a favore di una generale omologazione conformistica, giustificata dal fenomeno della globalizzazione.
Questo brano è tratto dalla tesi:
Un modello di recupero dei fienili delle Valli del Natisone
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Informazioni tesi
Autore: | Damiano Mesaglio |
Tipo: | Tesi di Laurea |
Anno: | 2015-16 |
Università: | Università degli Studi di Udine |
Facoltà: | Architettura |
Corso: | Architettura |
Relatore: | Giovanni Vragnaz |
Lingua: | Italiano |
Num. pagine: | 48 |
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