Potere del Web/potere nel Web. La metamorfosi delle categorie politiche al tempo dei Social Network.
Italia: amministrative e Referendum popolari primavera 2011
Tra i paesi occidentali, l’Italia – come risulta anche dalle classifiche di Freedom House sopra citate – rappresenta sicuramente un’anomalia mediatica.
Oltre ad avere un sistema di radiotelevisione pubblica (RAI) lottizzato dai partiti dall’ormai lontano 1975 (celebre è la ripartizione avvenuta durante la Prima Repubblica dopo la riforma del 1975, quando Rai 1 era influenzata dalla Democrazia Cristiana, Rai 2 dal Partito Socialista Italiano e Rai 3 dal Partito Comunista Italiano) ha da circa 20 anni come principale soggetto politico un imprenditore che ha fondato la propria notorietà e fortuna politica sulla proprietà e il controllo di tre reti televisive commerciali.
Ripercorriamo brevemente la vicenda per spolverare la memoria: dalla contestata sentenza n° 202 della Corte Costituzionale del 1976 in poi (fino alla “sanatoria” del 1990 – Legge Mammì, successivamente dichiarata incostituzionale) la “vacatio legis” italica venne sfruttata da varie emittenti televisive locali e private unite dall’imprenditore brianzolo Silvio Berlusconi in “Fininvest” per espandere il proprio raggio di azione all’intero territorio nazionale e incrinare – per infine spezzare – il monopolio della RAI favorendo la nascita della televisione su modello commerciale anche in Italia. Nonostante un lustro di ricorsi da parte della televisione pubblica giunti ai più svariati gradi di giudizio, la situazione che si venne delineando fu quella di una sostanziale amnistia per le infrazioni commesse da parte del nuovo monopolista della tivù commerciale. Dal momento che nessuna legislatura regolamentò definitivamente il sistema radiotelevisivo italiano, nel 1994, anno della sua “discesa in campo”, il di lì a poco Presidente del Consiglio dei Ministri Silvio Berlusconi, si dimise da tutte le cariche ricoperte nel gruppo Fininvest, allo stesso tempo mantenendo l’azionariato di maggioranza delle tre reti commerciali nazionali da lui fondate Canale 5, Italia 1 e Rete 4.
Non volendo in questa sede ripercorrere polemicamente le vicende di cronaca politica avviate dal passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica – caratterizzata dal leader del centro-destra Berlusconi – basterà però ricordare come una proprietà e un controllo privato esercitato su tre delle sette principali reti televisive nazionali, unitamente a una lottizzazione che sostanzialmente avvicini due (del servizio radiotelevisivo pubblico) dei quattro restanti canali al governo del magnate della comunicazione italiana, crei – almeno per gli stranieri - un cortocircuito nella percezione della libertà d’informazione in Italia.
Nell’Era dell’Informazione, possedere tre reti e controllarne due con fidi direttori di rete e di telegiornale, non è certamente una condizione anti-democratica, ma è sicuramente un consistente aiuto nel creare un’agenda e dei frame spendibili al momento delle elezioni politiche e costituisce un vulnus alle condizioni di libertà di espressione in generale.
Se è vero, come si è tentato di dimostrare nella seconda parte dell’elaborato, che nella società del consumismo di massa post-industriale, il ruolo esercitato dai produttori di “bisogni indotti” è quello di pubblicizzare e distribuire prodotti attraverso i media di massa, non pare solamente una elucubrazione intellettuale sostenere che anche un “prodotto politico” (ce lo dice già Bernays) si possa vendere attraverso il sapiente uso della pubblicità su tre canali di proprietà privata proprio di quel prodotto in “vendita” e creando un immaginario nazional-popolare basato su stili di vita e regimi di consumo manipolati attraverso i palinsesti, la creazione di miti, star e starlette, la loro promozione in politica come volti nuovi.
Una condizione che pare paradossale e assurda – ai limiti della follia autolesionista di massa impossessatasi della maggioranza di un popolo sovrano – a quasi tutti gli osservatori esteri che si avvicinano al “fenomeno Berlusconi” e alle democrazie più avanzate che fanno del “quarto potere” il watchdog su cui la democraticità delle istituzioni (negli Stati Uniti ad esempio) si fonda.
Questa anomalia, oltre al controllo di case editrici e giornali quotidiani, è la fondamentale causa dello status di “partly free” che Freedom House attribuisce alla penisola, andando a cogliere un fattore che accomuna il Bel Paese alle realtà mediterranee che si sono descritte sopra.
L’elemento di contatto e in parallelo è per quindi noi da ricercarsi in un monopolio mediatico e dell’informazione influenzato dalla politica, che, nel caso dell’Italia non ricorre – se non sporadicamente (si rammenti l’“Editto bulgaro” anti Santoro, Biagi, etc.) – alla censura, ma più semplicemente ha interiorizzato magistralmente le logiche del commercio (réclame) e della vetrina permanente per sostenere un’agenda politicizzata e dei frame filo-berlusconiani che negli ultimi diciassette anni hanno portato il padrone di Mediaset a presiedere quattro governi.
In un “regime televisivo” durato circa un ventennio, che ha creato un immaginario comune dell’uomo che “porta il sole in tasca” e proprio su quell’uomo si è basato, si è avuto modo di assistere alla parabola (il cui apice parrebbe alle spalle) del leader carismatico della società della comunicazione esemplificato e portato al suo estremo più convincente e di successo. Con l’avvento della società in rete, il modello berlusconiano “tette e soldi” sembrerebbe avere però perso la capacità di imbonire il popolo italiano che ha avuto dalla Rete, come anche dalle televisioni satellitari, la possibilità di ricercare altrove le informazioni e rendersi protagonista di una parziale fuoriuscita dal modello “calcistico” di tifo pro o contro la star Silvio Berlusconi.
Il ruolo che le nuove generazioni e le loro tecnologie (Social Network e Web 2.0) hanno avuto nei risultati delle elezioni amministrative primaverili 2011 e sul successo del Referendum del 12 e 13 giugno, impone una riflessione sull’invecchiamento del modello comunicativo della Seconda Repubblica e un nuovo approccio agli studi e alle statistiche sulla partecipazione politica in Italia.
L’Italia cresce più lentamente rispetto al resto d’Europa nella diffusione di Internet, e anzi, seguendo la Relazione 2011 di Corrado Calabrò, presidente dell'Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni, dovremmo pure darci una mossa:
“In Italia solo il 22% delle case ha una connessione a banda larga. Utilizziamo Internet solo per Facebook e per la pirateria, dimenticandoci delle migliaia di opportunità che ci offre il Web.
Proseguendo su questa strada siamo destinati ad accodarci al resto dell'Europa: loro in Serie A, non in Serie B.”
L’attività, come emerge dai grafici e dai dati riportati all’inizio della terza parte, in cui ci distinguiamo a livello mondiale è – in inversione di tendenza - quella su Facebook. Sarà per la tradizionale “socialità” del popolo italiano, sarà per la sua continua voglia di pettegolezzo, il Social Network di Zuckerberg ha “sfondato” trainando un aumento della connettività via mobile e ha scatenato un vero e proprio cyberattivismo sfociato in imponenti manifestazioni di piazza.
Dalle manifestazioni organizzate in Rete dal Popolo Viola, al già citato MoVimento 5 Stelle, nato dall’attività di blogger dell’(ex)comico Beppe Grillo, alla manifestazione per la dignità delle donne (“Se non ora quando” – 13 febbraio 2011), in Italia sono fioriti movimenti spontanei e vere e proprie forme di aggregazione politica durature (in questo la relazione del Berkman Center è stata smentita dai fatti) partiti dalla Rete.
Gli ultimi sviluppi, che hanno portato all’attenzione pubblica, ma non forse ancora a quella delle istituzioni e del tycoon di Arcore, della partecipazione via Web sono sicuramente da registrarsi nella campagna elettorale pro-Pisapia a Milano e nella mobilitazione a favore del voto e più precisamente per i 4 sì ai quesiti referendari di giugno.
Sono state principalmente le forze di centro-sinistra a scommettere (forse anche involontariamente a livello di macchina-partito) sulla potenza moltiplicatrice del Web e a raccoglierne i frutti, mentre lo schieramento di governo ha pagato dazio anche per la scarsa attenzione rivolta dal suo padrepadrone ai nuovi media. D’altronde l’età non è certo quella di un nativo digitale, e nemmeno la scarsa applicazione nell’apprendimento (Il Presidente del Consiglio confonde Google con Gogol - in un incontro con Mubarak del 2010 sulle potenzialità offerte dalle nuove tecnologie, a posteriori una situazione davvero paradossale) hanno favorito le campagne virali dei sostenitori di centrodestra.
Lo schema proposto dalla famosa e non più misteriosa “Struttura Delta” berlusconiana è stato il solito: televisione che “bypassa” (sui Referendum) i temi dell’avversario del caso o impone attraverso l’agenda setting dei frame favorevoli al Cavaliere (a Milano ad esempio puntando sul vittorioso cavallo leghista della “paura”, l’islamofobia e la xenofobia presunta dei milanesi).
Questo brano è tratto dalla tesi:
Potere del Web/potere nel Web. La metamorfosi delle categorie politiche al tempo dei Social Network.
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Informazioni tesi
Autore: | Alessandro Huber |
Tipo: | Laurea II ciclo (magistrale o specialistica) |
Anno: | 2011-12 |
Università: | Università degli Studi di Padova |
Facoltà: | Lettere e Filosofia |
Corso: | Filosofia teoretica, morale, politica ed estetica |
Relatore: | Antonio Da Re |
Lingua: | Italiano |
Num. pagine: | 177 |
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