Modelli alternativi di giustizia nei sistemi costituzionali di riferimento. Analisi comparata
Introduzione al fenomeno delle ADR in Italia, l’arbitrato
Pur rimanendo il processo giurisdizionale il metodo di risoluzione dei conflitti per eccellenza, non è necessariamente il miglior metodo, ed è condiviso il pensiero che sia opportuno diversificare le modalità di tutela, per perseguire essenzialmente due intenti: quello deflattivo e quello di miglioramento dell’accesso alla giustizia.
L’auspicata diversificazione non si manifesta solo in relazione al processo: sono le stesse modalità alternative a differenziarsi. Questa considerazione vale sia per quanto riguarda la figura del terzo (mediatore, conciliatore, arbitro), la cui scelta è rimessa alla volontà delle parti in base alle loro esigenze; sia guardando alla versatilità delle procedure, che seppur basate su principi stabiliti, possono essere adattate- quanto a tempi, forme e modalità - alle esigenze delle parti.
Prima di analizzare il fenomeno delle ADR nel nostro ordinamento, è opportuno tener conto del fatto che nonostante il legislatore continui a spendere energie per la diffusione di questi metodi e nonostante la bontà dei fini, il fenomeno della conciliazione e in generale degli strumenti alternativi al processo sembrano non incidere significativamente sui problemi dell’apparato giudiziario italiano. La diffusione di questi mezzi è lenta e stenta ad affermarsi, ma questo non sembrerebbe legato alla scarsa informazione sui nuovi modelli (giacché possono ritenersi sufficientemente pubblicizzati) quanto alla tendenziale diffidenza dei cittadini. Questi considerano di rado l’opportunità di conciliare, proprio perché risulta difficile uscire dalla forma mentis tipica del conflitto, che caratterizza il processo italiano.
Dopo un breve excursus sul fenomeno arbitrale si procederà analizzando più nel dettaglio la disciplina italiana che riguarda invece la conciliazione: nella sua versione contenziosa e non contenziosa, soffermandosi poi sulle recenti norme a riguardanti la conciliazione nel codice del consumo. Successivamente la ricerca verterà sul decreto legislativo 28/2010, che può essere considerato la prima disciplina generale sulla conciliazione del nostro ordinamento.
Con l’arbitrato la controversia è decisa sul piano privatistico per mezzo di uno strumento propriamente alternativo rispetto alla giurisdizione statuale; notiamo perciò una netta differenza con la conciliazione, perché utilizzando quest’ultima, anche se non si giunge ad un accordo, le parti potranno comunque rivolgersi alla magistratura ordinaria, diversamente se la controversia è devoluta ad un arbitro o ad un collegio arbitrale. Analogamente alla mediazione l’arbitrato può essere previsto dalle parti tramite una clausola compromissoria inserita nel contratto, ma questo non impedisce alle stesse di inserire anche due clausole nel contratto: una relativa alla mediazione ed una all’arbitrato. Infatti, non avendo la prima una natura aggiudicativa, nulla impedisce alle parti di declinare agli arbitri la lite.
L’esito dell’arbitrato è il lodo, mentre l’esito della mediazione è il verbale di conciliazione, benché entrambi per avere un’efficacia esecutiva richiedano un omologazione, (rispettivamente art. 825 c.p.c. e art. 12 del decreto 28/2010), sono profondamente diversi: l’uno ha natura negoziale; l’altro natura di decisione, sebbene questa sia presa da giudici privati. Tuttavia la tesi che sostiene la natura giurisdizionale dell’arbitrato e di conseguenza della natura del lodo simile a quella di una sentenza, non è stata (e in parte ancora non è) pacifica: molti Autori e diverse dottrine si sono confrontate in merito a questa antica questione. Ai fini di questa ricerca sarà sufficiente descrivere a quali conclusioni è approdato oggi questo dibattito decennale e quali innovazioni hanno di recente ridisegnato la disciplina dell’arbitrato.
L’evoluzione dell’arbitrato si caratterizza per una serie di riforme tese ad attribuire una sempre maggiore autonomia all’istituto arbitrale, emancipandolo dalla necessità di ricorrere alla giurisdizione dello Stato per avere una qualche efficacia (per le parti ed in seguito per i terzi). La prima riforma fu introdotta nel 1983 (l. 9 febbraio 1983, n. 44) e consentiva all’arbitrato rituale, anche se non omologato dal pretore, di avere un’immediata efficacia per le parti. La riforma fu salutata con favore dalla dottrina, se non altro perché il cambiamento si era ormai reso necessario per adeguare il nostro ordinamento alle normative internazionali riguardanti la circolazione dei lodi. La giurisprudenza e una parte minoritaria della dottrina continuavano a definire il lodo come una sorta di contratto e perciò l’arbitrato un meccanismo di natura negoziale: al lodo non omologato non si potevano opporre per la giurisprudenza le impugnazioni tipiche delle sentenze, ma si riconoscevano – a seguito della riforma - gli effetti negoziali tra le parti ab initio.
Su questa situazione d’incertezza decise d’intervenire il legislatore, con la l. 5 gennaio 1994, n. 25 la quale rafforzava i caratteri di autonomia e autosufficienza della decisione arbitrale: il lodo non omologato fu munito della piena dignità di decisione. All’art. 827 comma 2° del c.p.c. si chiarì che le impugnazioni potevano essere proposte indipendentemente dal deposito del lodo. Svalutato il valore dell’omologazione i vincoli che legavano l’arbitrato alla giustizia statuale si spezzarono. Il decreto di esecutività è diventato un accidente, aggiunge sì un quid in più – l’idoneità a valere come titolo per le esecuzioni forzate – ma un quid che può esserci o meno. Cresceva, tuttavia, nella dottrina e nei giudici un atteggiamento di diffidenza verso questo istituto: quasi che, più il lodo si faceva simile alla sentenza emessa da un giudice statale, più si rendesse necessario rimarcare la differenza fra questo e la giustizia data nel processo, non mancando di sottolineare la contrapposizione sostanziale tra giudici e arbitri.
Ulteriori sviluppi della vicenda si sono aggiunti con l’emanazione del d.lgs. 40/2006. Questo decreto ha provveduto a riformare nuovamente l’istituto dell’arbitrato, in quanto ha integralmente innovato quella che era la sua disciplina generale: non si è cercato di creare un modello unitario di arbitrato, quanto piuttosto di dare una disciplina positiva a tutte le tipologie di arbitrato. La disciplina generale, applicabile all’arbitrato, si deve perciò in primo luogo coordinare con le discipline speciali previste per i diversi tipi di arbitrato. Pur rimanendo fermo il limite del carattere disponibile del diritto controverso, la riforma del 2006 (d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40 attuativo della delega di cui all’art.1, c. 3, lett. b) della l. 14 maggio 2005, n. 80) ha ampliato il numero delle controversie compromettibili: per evitare equivoci il legislatore ha poi affermato che tutte le materie, che abbiano ad oggetto diritti disponibili, salvo espressa disposizione di legge sono compromettibili, inoltre anche le liti future di natura extracontrattuale potranno essere demandate ad un arbitro (808- bis c.p.c.).
Il legislatore ha inteso limitare il più possibile l’intromissione dell’autorità giudiziaria nella decisione di merito, ciò è avvenuto tramite l’espressa esclusione della sospensione per pregiudizialità ex art. 295 c.p.c. e attraverso l’art. 819, secondo il quale gli arbitri risolvono autonomamente senza autorità di giudicato le questioni pregiudiziali di merito, anche se attengono a materie non arbitrabili. Ma il vero "rossiniano colpo di cannone" esploso dalla novella consiste nell’aver previsto all’art. 824-bis che "il lodo ha dalla data della sua ultima sottoscrizione gli effetti della sentenza pronunciata dall’autorità giudiziaria", salvo per la sua esecutorietà. Può quindi ritenersi affermata la natura giurisdizionale o "para-giurisdizionale" dell’arbitrato, tesi che gran parte della dottrina affermava già prima della recente riforma, ma che era contrastata da una giurisprudenza poco incline a dividere il monopolio del potere decisorio. Questo non comporta una completa sostitutività tra arbitrato e giurisdizione statale, ma ancora una volta si deve necessariamente parlare di alternatività.
Con la riforma si è introdotta una regolamentazione anche per l’arbitrato irrituale, il quale prima di questo momento – nonostante le parti ne facessero ampio uso nella loro libertà contrattuale- non aveva ancora trovato un suo spazio nel panorama legislativo. Quest’ultimo ha una valenza contrattuale, sostanziale, simile alla conciliazione, anche se per alcuni tratti il legislatore sembra dimenticare quest’aspetto. Nella prassi quotidiana per sfuggire alle rigidezze dell’arbitrato legificato si decise di utilizzare un procedimento negoziale al termine del quale invece che una sentenza o un lodo si otteneva un nuovo vincolo contrattuale. Se si processualizzasse l’arbitrato irrituale, verrebbe certamente meno ogni differenziazione con quello rituale, se non per il fatto che solo quest’ultimo ha la possibilità di essere omologato. Inoltre, se l’intento fosse quello di predisporre rigide norme anche per l’arbitrato irrituale, potrebbero nascere nuove forme di arbitrato di nuovo definibili "libere", sottratte perciò all’art. 808-ter.
Questo brano è tratto dalla tesi:
Modelli alternativi di giustizia nei sistemi costituzionali di riferimento. Analisi comparata
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Informazioni tesi
Autore: | Giulia Carraro |
Tipo: | Tesi di Laurea Magistrale |
Anno: | 2012-13 |
Università: | Università degli Studi di Padova |
Facoltà: | Giurisprudenza |
Corso: | Giurisprudenza |
Relatore: | Mario Bertolissi |
Lingua: | Italiano |
Num. pagine: | 290 |
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