La Protezione dei Testimoni nei Processi davanti ai Tribunali Penali Internazionali
Implicazioni e prospettive per la Corte Penale Internazionale
Il Tribunale Militare Internazionale per il Perseguimento e la Repressione dei Principali Criminali di Guerra dell’Asse Europeo, creato dagli Alleati della Seconda Guerra Mondiale a Norimberga, ha contribuito enormemente allo sviluppo del diritto internazionale. Rafforzando l’idea che “no one should be left totally abandoned to the vagaries of his or her government and that (...) the international community will not stand idly by (…)”.
L’esperienza di Norimberga ha anche suggerito che il diritto penale internazionale e le sue norme debbano essere rafforzate. Gli attuali Tribunali Penali Internazionali, sviluppati di recente, sono stati plasmati, in larga misura, sul modello di Norimberga, ma, nel tentativo di raggiungere gli obiettivi stabiliti a Norimberga, hanno tentato di evitare i difetti che affliggevano il suo funzionamento. I processi condotti da questo Tribunale Militare, sono stati criticati per la mancanza d’imparzialità dei giudici, provenienti solo dalle nazioni vincitrici della Seconda Guerra Mondiale e per l’applicazione post facto di “Allied formulated laws”.
Per molti versi, invece, i tribunali attualmente funzionanti a livello internazionale sono simili ai tribunali nazionali, anche se sono stati istituiti per perseguire i criminali di guerra e per fornire un forum per il perseguimento dei criminali internazionali. I processi internazionali presentano problemi probatori unici che, per la maggior parte, non sorgono nei procedimenti interni. I casi di diritto penale internazionale giudicati dal Tribunale Penale Internazionale per l’ex-Jugoslavia e per il Rwanda, entrambi basati sul modello di Norimberga, finora hanno presentato problemi, relativi al diritto alla prova, unici a causa del carattere di massa dei crimini commessi e della storia unica di ogni paese. L’ammissione delle testimonianze anonime ha sollevato il serio interrogativo se possa essere minato il diritto dell’imputato ad un giusto processo, specialmente in un procedimento giudiziario carico d’implicazioni politiche, allo scopo di assicurare alle vittime ed ai testimoni un’adeguata protezione.
I diritti dell’imputato ad un giusto processo sono ben definiti dal diritto nazionale e internazionale e sono una componente esplicita del quadro giuridico dei Tribunali ad hoc per l’ex-Jugoslavia e per il Rwanda. Nel suo commento sulle questioni procedurali inerenti ai diritti degli imputati, il Segretario Generale ha affermato che “is axiomatic that the International Tribunal must fully respect internationally recognized standards regarding the rights of the accused at all stages of its proceedings.”
Invece, diverse sfide sorgono nel contesto dello sviluppo degli standard minimi per un giusto processo: il problema è che le disposizioni di diritto internazionale in materia non sono ben sviluppate e, nonostante l’elaborazione di un corpus di norme processuali e di una discreta giurisprudenza, una soluzione ampiamente condivisa è ancora lontana. Un’altra difficoltà è la natura sui generis del sistema giuridico del diritto penale internazionale, poiché le norme nazionali e internazionali che disciplinano il giusto processo possono subire sostanziali trasformazioni se incorporate in un nuovo regime giuridico. Se questo diritto sia , o meno, sufficentemente tutelato all’interno di un sistema, dipende in parte dalla priorità concessagli in rapporto alla considerazione di altri interessi processuali, come il diritto delle vittime e dei testimoni. La priorità accordata ai diversi interessi può dipendere da una norma che stabilisca all’interno del diritto internazionale una gerarchia. Ad esempio, il perseguimento del genocidio riguarda la violazione di una norma di jus cogens, la quale stabilisce che lo sterminio sistematico di un gruppo etnico è una componente inammissibile di una campagna militare. Non ci sono condizioni che renderebbero possibile il genocidio ammissibile secondo il diritto internazionale. Tutt’altra questione è il diritto di un individuo accusato di genocidio a confrontarsi con i testimoni a carico, in quanto il right to confrontation è contenuto nell’art. 14 del Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici.
Ma questa Convenzione contiene anche l’eccezione di una “public emergency”, che permette agli Stati parti del Patto di “take measures derogating from their obligations (…) to the extent strictly required by the exigencies of the situation.”
Come tale, il diritto al confronto è senza dubbio uno ius dispositivum, cioè, una “norm (…) from which derogation is permitted”, anche se in circostanze limitate.
Nella misura in cui alcune norme del giusto processo possono essere derogabili ai sensi del diritto internazionale, la forza di queste tutele in un sistema internazionale giudiziario rimane una questione aperta. Se il diritto di confrontarsi con i testimoni è un diritto derogabile, per esempio, quali sono i confini di tale deroga ammessa? I diritti dei testimoni e quelli degli accusati sono in conflitto e si deve accettare il primato di uno sull’altro?
Le regole e la giurisprudenza dei Tribunali Penali Internazionali presenti e futuri hanno avuto e avranno un effetto rilevante sulle norme del giusto processo nel diritto internazionale.
L’efficacia del Regolamento di Procedura e Prova per lo sviluppo di uno standard di giusto processo dipenderà, in gran parte, dal metodo interpretativo applicato a tali norme e fonti del diritto. I giudici dei Tribunale Penali Internazionali ad hoc considerano lo Statuto e il Regolamento come farebbe un organo giudiziario internazionale, interpretando un trattato ai sensi della Convenzione di Vienna. Come tali, essi sono tenuti ad interpretare le disposizioni “in good faith in accordance with the ordinary meaning to be given to the terms of the treaty in its context and in light of its object and purpose.” Il metodo applicato dalla Convenzione di Vienna, tuttavia, ammette due tendenze potenzialmente contraddittorie. Una tendenza è quella dell’interpretazione restrittiva, di aderire strettamente ai termini come scritti, mentre l’altra è quella di adottare un approccio contestuale, che nella sua forma estrema potrebbe consentire una divergenza dagli aspetti letterali dei requisiti scritti.
Questi temi si riflettono inevitabilmente sullo Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale e sul suo Regolamento di Procedura e Prova, che è la fonte principale della disciplina del diritto processuale. L’art. 67 dello Statuto di Roma sviluppa gli standards per un giusto processo come ci si aspetterebbe in una giurisdizione occidentale di common law, compreso il diritto a un processo equo, il diritto di essere assistiti da un avvocato, il diritto di interrogare i testimoni, e il diritto al silenzio, ma, anche se lo Statuto di Roma contiene norme rigorose per i diritti degli imputati, l’ampio potere discrezionale attribuito ai giudici nelle loro decisioni sull’ammissibilità delle prove è preoccupante. Senza disposizioni più specifiche che limitano l’ammissione di prove, le basi probatorie, su cui si ottengono le condanne, corrono il rischio di essere poco chiare. In mancanza di disposizioni più specifiche, tuttavia, la giurisprudenza sviluppata dai Tribunali ad hoc è il punto di partenza per la corretta redazione di regole pratiche per la valorizzazione delle tutele processuali applicabili dalla Corte Penale Internazionale.
Questo brano è tratto dalla tesi:
La Protezione dei Testimoni nei Processi davanti ai Tribunali Penali Internazionali
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Informazioni tesi
Autore: | Alessandra Cuppini |
Tipo: | Laurea II ciclo (magistrale o specialistica) |
Anno: | 2010-11 |
Università: | Università degli Studi di Bologna |
Facoltà: | Giurisprudenza |
Corso: | Giurisprudenza |
Relatore: | Attila Tanzi |
Lingua: | Italiano |
Num. pagine: | 174 |
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