Alessitimia e strategie di regolazione emotiva deficitarie tra i disturbi del comportamento alimentare e i disturbi da uso di sostanze
Il trattamento terapeutico dell’alessitimia
Questo capitolo si struttura in relazione a una riflessione personale, che ha origine dai dubbi emersi nell’affrontare i dati contradditori provenienti dalla ricerca degli effetti della psicoterapia sull’alessitimia. In particolare, sono emersi quattro quesiti primari:
1. L’alessitimia è modificabile?
2. L’alessitimia compromette i benefici della terapia?
3. L’alessitimia influisce negativamente sull’esito della terapia oppure è la reazione del terapeuta a soggetti HA a indurre problematiche negli outcome? O meglio, quali effetti ha l’alessitimia sull’alleanza terapeutica?
4. Esistono interventi terapeutici specifici e/o preferibili nel trattamento dei pazienti alessitimici?
Tali domande saranno affrontate in ordine cronologico al fine di delineare lo stato attuale delle evidenze sui ruoli del rapporto tra trattamento e alessitimia.
In primo luogo, è chiaro come ai fini della terapia sia importante comprendere se e quanto l’alessitimia sia una caratteristica stabile o meno. Esiste un ampio dibattito sulla possibilità che l’alessitimia possa essere modificabile. Tendenzialmente, questo fenomeno viene concettualizzato secondo due prospettive differenti, come un tratto della personalità permanente o come un fenomeno di stato. A tale proposito si distinguono due tipologie di stabilità: una stabilità assoluta, relativa ai cambiamenti dei punteggi alessitimici nel corso del tempo e una stabilità relativa, riferita al grado in cui i punteggi di un soggetto rispetto a quelli degli altri rimangono stabili nel tempo. La maggioranza degli autori sono concordi nel ritenere che nella popolazione generale il grado di stabilità relativa dell’alessitimia sia elevato.
Tuttavia, nonostante la propensione alla stabilità del costrutto, diverse prove dimostrano che gli interventi psicologici possono parzialmente modificare l’alessitimia. La maggioranza degli studi hanno rilevato significativi cambiamenti dell’alessitimia a seguito di un trattamento psicoterapeutico. Complessivamente c’è convergenza nell’idea che l’alessitimia presenti una stabilità relativa ma non una stabilità assoluta.
Questi dati sono essenziali, poiché ci restituisco che gli interventi terapeutici possono avere senso anche con questa tipologia di pazienti. D’altra parte, emerge il bisogno di comprendere se e come l’alessitimia abbia delle conseguenze negative sui benefici derivati dalla terapia. L’aspetto cruciale nel trattamento dei soggetti alessitimici risiede nel fatto che le normali psicoterapie sembrano essere meno efficaci. Per comprendere le origini di questa incongruenza basta pensare alle caratteristiche comuni alla maggioranza degli approcci terapeutici.
La prevalenza dei trattamenti agisce proprio sul comparto emotivo, considerandolo come uno strumento nevralgico per la trasformazione terapeutica. Solitamente il terapeuta si prefigge degli obiettivi, tra cui troviamo: l’empowerment delle capacità di conoscenza, gestione e comunicazione delle emozioni. Però, questi interventi sono pianificati per pazienti che posseggono, almeno in parte, una certa consapevolezza emotiva. Naturalmente ciò collide con le difficolta a identificare i sentimenti degli HA. Le conseguenze derivate da tale discrasia sono che “i soggetti alessitimici presentano problemi particolari nella psicoterapia perché hanno difficolta con le capacità che sono al cuore della psicoterapia: distinguere, verbalizzare e discutere esperienze e sentimenti soggettivi”. Questi pazienti usufruiscono di un vocabolario emotivo limitato, propendendo per un pensiero prevalentemente concreto e hanno difficolta a condividere i propri stati interni.
Ovviamente, la serie dei deficit emotivi e interpersonali che caratterizzano gli HA, si presentano anche nella relazione con il terapeuta. L’assenza di benefici della terapia non può essere imputabile esclusivamente alle caratteristiche associate all’alessitimia. Supportano questa affermazione due dati principali. In primis, la ricerca ha dimostrato che la psicoterapia è potenzialmente adeguata a pazienti con elevata alessitimia. In secondo luogo, complessivamente gli studi empirici hanno dimostrato che l’alessitimia non influisce negativamente sul rimanere in terapia.
Questo ci porta a sottolineare l’importanza della reazione del terapeuta a questa tipologia di pazienti. Essendo che, l’alleanza terapeutica si fonda su un rapporto duale, anche l’analista può essere iatrogeno nelle interazioni. Inoltre, la cronicizzazione di alcuni disturbi può essere imputabile alla parzialità dei sistemi di cura. Il terapeuta è parte integrante di questo sistema. Dunque, l’analisi sarà ora focalizzata sulla prospettiva del vissuto del terapeuta.
L’incontro con un paziente alessitimico non è affatto semplice. Infatti, molti autori hanno evidenziato l’impossibilità di sviluppare un effettivo rapporto terapeutico con questi pazienti. Tali difficoltà scaturiscono dalle interazioni tra HA e terapeuti. Quest’ultimi, infatti, trovano i pazienti freddi e frustranti. La freddezza proviene dagli atteggiamenti alessitimici, che mettono il terapeuta in una condizione di difficoltà ad empatizzare. Data la distanza e l’incapacità di un interazione emotiva, il terapeuta può sentirsi frustrato, respinto e inadeguato (professionalmente). Tali sentimenti provocano una reazione negativa controtrasferale. A questo punto si innesca una concatenazione circolare, tale per cui il paziente che si mostra anestetizzato emotivamente provoca reazioni avversive nel terapeuta, che a loro volta incrementano il distacco emotivo contribuendo a mitigare l’alleanza terapeutica.
I dati della ricerca supportano questi avvenimenti, sostenendo da una parte l’importanza del controllo delle reazioni negative del terapeuta, dall’altra riscontrando che queste stesse reazioni mediano il rapporto tra elevata alessitimia ed esito meno positivo.
Premesso che, la terapia è presumibilmente efficace in presenza di alessitimia, l’ultimo quesito che rimane in sospeso è definire se esistano o meno interventi terapeutici specifici. In generale, non sussistono prove a supporto dell’esistenza di un trattamento meno ricettivo dell’influsso negativo dell’alessitimia. Alcune evidenze però, dimostrano che terapie rivolte ad un obiettivo, come la psicoterapia cognitivo-comportamentale (CBT) e la terapia psicologica integrata (IPT) possono apportare significativi benefici a HA. Inoltre, la terapia gruppale sembra essere particolarmente indicata per soggetti alessitimici. Infatti, la risonanza emotiva che si genera negli altri membri del gruppo, può essere un fattore conoscitivo del proprio vissuto emotivo.
Nunes da Silva, in una recente rassegna del 2021 ha affrontato la ricerca sull’intervento del costrutto alessitimico da una prospettiva clinica. Ciò che emerge da questa revisione è che i seguenti interventi hanno ottenuto significativi benefici sull’alessitimia: terapia psicodinamica di gruppo (Grabe et. al.), intervento di gruppo psicoeducativo specifico (Levant et al.) e interventi mirati basati sulla mindfulness. I dati concordano nel ritenere che approcci flessibili e integrati siano particolarmente importanti con pazienti alessitimici, dato che l’intervento dovrebbe strutturarsi in virtù delle peculiarità emotive e cognitive del soggetto.
Sarebbe opportuno concettualizzare dei programmi mirati di educazione alfabetizzazione emotiva, da integrare nel trattamento dell’alessitimia.
Questo brano è tratto dalla tesi:
Alessitimia e strategie di regolazione emotiva deficitarie tra i disturbi del comportamento alimentare e i disturbi da uso di sostanze
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Informazioni tesi
Autore: | Guglielmo Pezzillo |
Tipo: | Laurea II ciclo (magistrale o specialistica) |
Anno: | 2021-22 |
Università: | UniCusano - Università degli Studi Niccolò Cusano |
Facoltà: | Psicologia |
Corso: | Psicologia Clinica e della Riabilitazione |
Relatore: | Guglielmo Pezzillo |
Lingua: | Italiano |
Num. pagine: | 150 |
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