I classici dell'arte nella pubblicità: note su uso e abuso del citazionismo
Il rapporto tra arte e pubblicità
Arte e pubblicità sono le protagoniste di un dibattito che si protrae da circa due secoli e che ha fatto sì che queste due culture visuali siano state separate da critici e pubblicitari.
Tuttavia, nonostante non si possa negare la natura commerciale della pubblicità e la sincerità dell'estro artistico, la citazione di opere d'arte nelle réclame ha il potere di sorprendere i critici d'arte e i pubblicitari e affascina gli osservatori: un classico dislocato in uno spazio pubblicitario conserva comunque il suo fascino, l'arte è citata nella pubblicità per dialogare con questa, per entrare in un virtuosismo fatto di rimandi che non si subordinano alla fonte ma che la ricreano nella citazione visiva, rivalutata dai post-moderni.
Uno dei caratteri forti del postmodernismo, movimento artistico e culturale iniziato dagli anni '70 del '900, è per l'appunto la "cancellazione del confine" tra la cultura alta e quella di massa o commerciale, costruendo materiali compositi che integrano in sé gli elementi, non semplicemente li contengono.
Tuttavia c'è anche chi ha negato la possibilità di considerare la pubblicità come un'arte, come lo studioso Edoardo Sanguineti, uno dei più attenti osservatori dei nessi tra futurismo e pubblicità: a suo parere, espresso in un articolo nel quotidiano "Paese Sera", il messaggio pubblicitario ha dovuto molto alla poetica marinettiana ma se un'ideologia artistica si compromette con la pubblicità, è già segnata negativamente. Il critico ha condannato perciò il futurismo come movimento culturale organizzato in termini di efficienza promozionale deprecando la dipendenza del movimento dalla "sponsorizzazione capitalistica" rivelata dagli scritti dell'artista futurista Fortunato Depero.
C'è però da precisare che il rapporto tra arte e potere è sempre stato molto più ampio, non è stato inventato dal capitalismo, in quanto l'arte è sempre stata dipendente dal committente e indipendente nell'esecuzione: basti pensare alle opere commissionate dai signori rinascimentali, i quali sfruttavano le immagini artistiche come espressione del proprio potere.
Meno intransigente di Sanguineti, Gian Paolo Fabris, il sociologo italiano della pubblicità, nel suo saggio Pubblicità: teorie e prassi, ha delineato un percorso comune alla creatività artistica e pubblicitaria, negando tuttavia valore d'arte alla pubblicità in quanto rivolta a fine commerciale; il sociologo ha però tralasciato i fini eterogenei per cui l'arte ha lavorato per millenni celebrando gesta di casate, divulgando il Vangelo e raccontando guerre.
Dimenticando l'architettura, il cinema e le botteghe degli antichi pittori, si è ulteriormente condannata la pretesa pubblicitaria di costituire arte in quanto non sarebbe di un autore unico, ma c'è anche chi ha valutato positivamente la riproducibilità delle opere d'arte: il critico d'arte italiano Gillo Dorfles, il quale nel suo articolo Arte, Pubblicità e industria in Marcello Dudovich, ha osservato che l'opera d'arte, anche se riprodotta numerose volte, conserva le sue caratteristiche di autonomia e pregnanza estetica, dato che il suo valore sta a monte, nell'iniziale fase progettuale. Secondo Dorfles, questa concezione dell'opera d'arte "multipla" è stata accettata dal pubblico solo con l'avvento dei mezzi di moltiplicazione e riproduzione tecnica e in particolare grazie alla diffusione de L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica, breve saggio di Walter Benjamin, filosofo, critico e sociologo tedesco il quale ha palesemente influenzato l'ideologia di Dorfles e di cui tratto in seguito.
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I classici dell'arte nella pubblicità: note su uso e abuso del citazionismo
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Informazioni tesi
Autore: | Elena Battistini |
Tipo: | Laurea I ciclo (triennale) |
Anno: | 2012-13 |
Università: | Università degli Studi di Pisa |
Facoltà: | Lettere e Filosofia |
Corso: | Discipline dello spettacolo e della comunicazione |
Relatore: | Sergio Cortesini |
Lingua: | Italiano |
Num. pagine: | 61 |
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