La libertà del male, il male della libertà. Una riflessione sul pensiero tragico di Luigi Pareyson in rapporto alla testimonianza biblica
Il pensiero etico di Pareyson
Quando Pareyson, verso la fine della sua carriera, distingue (come dicevamo) tre fasi del suo pensiero – personalismo, ermeneutica, ontologia della libertà – non rende giustizia a se stesso, perché non dà ragione del “periodo estetico”, che interessa in particolare gli anni Cinquanta, né della riflessione etica conseguente, che si esplica soprattutto nel decennio successivo.
Il rapporto arte-morale è presente fin dagli anni ‘40, ma in modo particolare in L’estetica e i suoi problemi (1961). «Arte non v’è se non come iniziativa personale», osserva il filosofo, rivendicando il nesso inscindibile tra arte e persona tipico della sua teoria della formatività. È l’iniziativa umana a porre in atto il compito e la persona; attraverso una serie di tentativi è portata in luce l’opera che esprime l’impegno e la totale partecipazione oltre che la realizzazione della persona stessa come “soggetto” e come “oggetto” dell’arte.
Il rapporto tra arte e persona costituisce la serietà e la dignità dell’operare artistico. Su questa linea «si può parlare di bellezza anche di opere morali e speculative: tutta la vita spirituale è in un certo senso arte, perché tutta la vita spirituale è formatività». Per Pareyson non esiste un’opera d’arte completamente immorale, perché la moralità è – kantianamente – costitutiva dell’arte; potremmo aggiungere che l’arte, così come la moralità (che è sostanzialmente libertà) è costitutiva dell’uomo. Si potrebbe forse ricercare – benché Pareyson non applichi a Dio la sua “teoria della formatività” – una intrinseca moralità nella grandiosa “opera d'arte” della creazione.
Dalla metà degli anni Sessanta all’inizio del decennio successivo il pensiero etico di Pareyson si confronta con il pensiero religioso di Kierkegaard, Pascal e Dostoevskij.
Nelle dispense di filosofia morale su Kierkegaard (1964-1965) Pareyson intende il passaggio dalla sfera etica a quella religiosa, di cui è immagine il patriarca Abramo, come salto di libertà che rende l’uomo solo e sempre con il fiato sospeso: «Il cavaliere della fede sa che nessuno può comprenderlo. Egli sa che l’etica è manifestazione, il che rende possibile la comunicazione con gli altri, la comprensione degli altri, l’aiuto degli altri; ma preferisce la terribile solitudine del silenzio, in cui nessuno può comprenderlo né assisterlo; e in cui non c’è nessun criterio oggettivo per distinguere se egli è un pazzo o un credente».
Nell’Etica di Pascal (1966) Pareyson giunge a teorizzare l’impossibilità di una morale filosofica. Un medesimo atto può essere considerato in un’epoca come virtù e in un’altra come vizio; ciò evidenzia l’incertezza e la contestabilità di ogni scelta etica.
In questa situazione di mutevolezza e di incertezza morale Pascal sente l’urgenza di affrontare il problema dell’esistenza di Dio e dell’immortalità dell’anima come essenza del fondamento morale. Ma poiché tutte le prove razionali dell’esistenza di Dio risultano incomplete, la possibilità dell’esistenza di Dio è dominio esclusivo dell’esperienza religiosa, che si sottrae alla ragione. Su queste basi, Pareyson concorda con il filosofo francese nel dedurre l’impossibilità di un’etica puramente filosofica.
Ulteriore tappa è il periodo 1968-1970, in cui la riflessione etica di Pareyson si concentra sul tema della libertà come iniziativa e come scelta.
La dispensa per il corso universitario di filosofia morale del 1968-69 porta il titolo L’iniziativa morale. Il filosofo istituisce un nesso strettissimo tra decisione e normatività: non può esserci vera e propria decisione senza la presenza di una norma, senza l’esigenza di un valore. La norma, tuttavia, non è un valore ideale preesistente all’azione, un comando estrinseco o una necessità fisica, ma un’interiore obbligazione morale. «Si tratta d’un “dovere” che non è necessità fisica, ma necessità morale: due cose diversissime, che la nostra lingua congiunge nell’unico termine di “dovere”, autorizzando in tal modo confusioni inammissibili sul piano dei concetti, e che ad esempio la lingua tedesca distingue opportunamente con due termini diversi: müssen e sollen.
La necessità del Müssen è quella con cui quando il mio corpo è spostato oltre il suo baricentro, io cado inevitabilmente per terra (…); mentre invece la necessità del Sollen è quella propria d’una norma morale, la quale si appella alla mia libertà, e cioè mi obbliga ma non mi costringe, perché il modo con cui essa mi s’impone implica la possibilità ch’io la violi pur riconoscendola». «L’uomo può violare la legge dell’agire, ma con ciò stesso ne riconosce la doverosità; l’uomo può scegliere liberamente il valore o il disvalore, ma proprio perciò il suo atto nasce già segnato da una valutazione ch’egli stesso e chiunque altro devono riconoscere».
In altri termini, la norma viene prima, non dopo la libertà umana. I valori tuttavia – prosegue Pareyson – non sono sovrastorici, perché inevitabilmente formulati secondo il costume del tempo. «Ma se i valori sono in grado di dirigere l’attività umana solo sotto la forma dell’esemplarità di valori puramente storici, a quale norma dobbiamo rifarci per trovare il sostegno della nostra libertà e la guida della nostra attività?». Bisogna risalire alla presenza dell’essere, «Ma questo è l’argomento di un nuovo studio, ch’è l’ontologia della libertà».
Come nota Giovanni Ferretti, in queste dispense è presente un cambiamento di prospettiva: l’iniziativa umana è sentita ancora come insufficiente, il problema però è risolto non più con il passaggio all’esperienza religiosa, ma con il rimando all’ontologia.
Nella dispensa di filosofia morale del 1970, l’essere è presentato come legge morale e la libertà come sua formulazione storica. La libertà, proprio per il suo rapporto intrinseco con l’essere, non ha bisogno di alcun criterio esterno ad essa che le serva da modello (i valori) ma, agostinianamente, “può fare quello che vuole”, si dà un criterio volta per volta. La morale è infatti la possibilità di rinnovare in concreto, nelle singole azioni, quella scelta primigenia per o contro l’essere, che costituisce il suo sfondo metaetico. Dunque l’etica non ha alcun bisogno di un’assiologia, intesa come dottrina di valori già dati e metafisicamente fondati, perché, in definitiva, si identifica con l’ontologia della libertà.
In Ontologia della libertà le “lezioni di Napoli” si aprono con una parziale messa in discussione delle giovanili critiche a Jaspers, la cui ottica era sentita come necessaristica. Una migliore comprensione di questo autore, infatti, deve tener conto del fatto che il concetto esistenzialistico (e jaspersiano in particolare) di libertà va ben oltre la prospettiva morale. Un concetto più originario di libertà si può attingere approfondendo la lettura di Schelling, Plotino, Pascal.
Questo brano è tratto dalla tesi:
La libertà del male, il male della libertà. Una riflessione sul pensiero tragico di Luigi Pareyson in rapporto alla testimonianza biblica
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Informazioni tesi
Autore: | Denise Adversi |
Tipo: | Laurea II ciclo (magistrale o specialistica) |
Anno: | 2011-12 |
Università: | Università degli Studi Roma Tre |
Facoltà: | Lettere e Filosofia |
Corso: | Scienze filosofiche |
Relatore: | Francesca Brezzi |
Lingua: | Italiano |
Num. pagine: | 151 |
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