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La cooperazione euro-mediterranea e la parità di genere: i progetti dell’Unione per il Mediterraneo

Il modello economico islamico

Il modello economico islamico è stato molto criticato dagli economisti occidentali che riconoscendo la scientificità dell’economica ne riconoscono anche l’universalità e non ritengono quindi ammissibile un’alternativa alla teoria economica occidentale: a partire dagli anni Settanta del Novecento, però questo modello, per quanto non riconosciuto da tutti come valido, ha iniziato a essere concretizzato in Egitto, Giordania, Marocco e altri Paesi con la creazione di banche islamiche e del sistema di raccolta della zakat (tassa coranica) e con l’imposizione di regole sui consumi e sulla produzione, secondo la legge islamica. Il modello non ha determinato importanti cambiamenti nella società, ma è stato ampiamente accettato dalla popolazione: i musulmani infatti ritengono che aderire a questo modello economico equivale a mettere ulteriormente in pratica il messaggio religioso, diventando così fedeli migliori. L’economia islamica si basa su tre capisaldi: il cosiddetto filtro morale, la proibizione dell’interesse nelle operazioni finanziarie e la tassazione della ricchezza infruttifera per scopi religiosi. Il filtro morale è dato dall’influenza dei principi coranici su diversi aspetti della vita economica: è secondo questa prospettiva che la donna non deve avere un ruolo economico, mentre gli uomini godono della libertà di produrre e commerciare, ma questa non è la sua unica espressione; l’ influenza del filtro morale tocca per esempio, la gestione della proprietà privata, durante la quale si deve sempre considerare che in realtà tutto appartiene a Dio, per cui non se ne può fare un uso contrario ai principi coranici; la produzione e il commercio, attività che devono essere svolte senza nuocere gli altri con salari non equi, prezzi irragionevoli, monopolio e controllo del mercato; i contratti, che possono essere stipulati solo se funzionali allo svolgimento di un’attività produttiva e che devono essere di reale utilità per la società; il mercato, perché non è ammesso che i prezzi vengano aumentati in modo artificioso ed è proibito il monopolio; e i consumi, che vengono influenzati dalla legge islamica in più livelli: ci sono delle scelte di consumo proibite, dette haram, come l’alcol, la carne di maiale, il gioco d’azzardo e alcuni materiali preziosi: altre, dette makrough, legate a condizioni particolari come ricorrenze religiose, e altre ancora sempre concesse, dette halal, ma con moderazione; la moderazione in realtà è spesso legata più a problemi economici che all’aderenza ai precetti religiosi, ma a prescindere dalla sua natura è interessante notare che determina una limitazione nella produzione locale di beni di lusso che, quindi, quando vengono acquistati provengono dal mercato estero: ciò significa che grandi quantità di denaro escono dall’economica locale. Altri aspetti centrali del filtro morale sono la durata elevata che i beni prodotti devono avere nel tempo, caratteristica che ostacola il progresso tecnologico, e la cooperazione, che deve subentrare al concetto di competizione alla base del mercato occidentale. Il secondo caposaldo dell’economia islamica è la proibizione della riba, la tassa di interesse sui soldi prestati: questo perché il denaro non può di per sé essere motivo di guadagno, o si andrebbe a incoraggiare l’accumulazione della ricchezza fine a sé stessa. La questione della riba è diventata centrale dopo la scoperta dei giacimenti di petrolio e il conseguente afflusso di capitali: il divieto contrastava con la possibilità di prestare questi soldi ai Paesi occidentali e ciò portò alla nascita delle prime banche islamiche e allo sviluppo di un proprio sistema finanziario. La reazione dei Paesi arabi non fu univoca: alcuni, come Giordania e Tunisia, appoggiarono la creazione di queste nuove banche, mentre altri, come l’Algeria, la ostacolarono. La nascita delle banche islamiche ha portato alla nascita di tecniche di finanziamento islamiche come i nonprofits accounts, conti su cui affluiscono solitamente piccole somme di denaro che possono essere prelevate in qualsiasi momento, e i profit-sharing deposit accounts, conti che prevedono una certa soglia minima di ingresso. la prenotazione con largo anticipo del prelievo e il trasferimento della proprietà dei fondi alla banca, in modo che il proprietario partecipi agli utili o alle perdite della banca; gli economisti islamici hanno anche elaborato modelli di business e politiche monetarie e di gestione del debito, in merito ai quali non si entrerà però nei dettagli. Il terzo pilastro è la zakat, una tassa generalizzata sulla ricchezza con un’aliquota pari al 2,5% sui beni non sfruttati per fini produttivi: in sostanza si tratta di uno strumento di redistribuzione della ricchezza che dovrebbe arginare il problema della povertà; i proventi della zakat devono infatti, secondo la legge islamica, essere utilizzati per soddisfare le esigenze della comunità.
Dai report finali dei progetti realizzati dall’Unione per il Mediterraneo con lo scopo di favorire l’accesso delle donne al mercato del lavoro, i cui risultati sono stati inclusi nel capitolo precedente, emerge che in diversi progetti le partecipanti hanno seguito corsi di formazione in materie economiche. Il programma degli incontri non è specificato, per cui non è possibile verificare se siano stati trattati aspetti legati all’economia islamica, a quella occidentale o a entrambe e non si conoscono le banche e gli enti verso i quali le partecipanti seguite nei percorsi per l’imprenditorialità sono state indirizzate, per cui non si può presupporre una formazione in linea con l’economia islamica basandosi sulla partnership tra l’Unione per il Mediterraneo e le banche islamiche. È al contrario improbabile una collaborazione simile: se la donna è ancora considerata dalla legge islamica priva di un ruolo economico, ciò significa che non può ricevere fondi per l’avvio o la gestione di un’attività economica; d’altra parte formare le donne secondo principi di economia capitalista potrebbe determinare un ulteriore repulsione della società al loro ingresso nella vita economica locale. Sarebbe quindi interessante approfondire che tipo di formazione economica è stata trasmessa alle partecipanti dei progetti dell’Unione del Mediterraneo, capire se c’è una differenza nella reazione sociale in base al modello economico applicato e se la formazione secondo principi di economia islamica potrebbe favorire la diffusione della reinterpretazione del messaggio coranico e quindi di un nuovo ruolo della donna.
Per precisione, si specifica che dai dati disponibili emergono due banche che hanno collaborato con l’Unione per il Mediterraneo: la Central Bank of Jordan e la Bank Al-Maghrib, coinvolte nel progetto Promoting financial inclusion via mobile financial services in the southern and eastern mediterranean countries rivolto sia a uomini che a donne e non relativo all’attività imprenditoriale, ma a servizi principalmente di risparmio. Non conoscendo però i risultati del progetto e in particolare se ha determinato un accesso delle donne ai servizi offerti, si ritiene che indagare ulteriormente sulla natura di queste due banche non possa portare a risultati rilevanti per l’analisi dell’impatto delle iniziative realizzate in seno all’Unione per il Mediterraneo nella vita economica delle donne.

Questo brano è tratto dalla tesi:

La cooperazione euro-mediterranea e la parità di genere: i progetti dell’Unione per il Mediterraneo

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Informazioni tesi

  Autore: Sara Uccheddu
  Tipo: Laurea II ciclo (magistrale o specialistica)
  Anno: 2019-20
  Università: Università degli Studi di Cagliari
  Facoltà: Scienze Politiche
  Corso: Relazioni internazionali
  Relatore: Silvia Benussi
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 97

FAQ

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