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La narrativa di Mario Pratesi

Il lavoro e la fama letteraria

Mario Pratesi morì con due grandi rimpianti: il primo, di carattere esterno, è quello di non aver mai ricevuto la giusta considerazione ed il dovuto riconoscimento che secondo lui le sue opere avrebbero meritato. Il secondo invece, di carattere prettamente personale, era dato dal peso – che lo accompagnò sempre, dagli anni della maturità fino all'età senile – causato dall'amara constatazione di non esser stato in grado di concretizzare nella sua opera letteraria l'alta idea di arte che egli aveva teorizzato. A suo dire non ne fu mai all'altezza, non riuscendo mai a trasporre efficacemente su pagina tutto "il mondo di poesia" che si agitava nel suo animo: "Muoio col rammarico di sapere che nulla di quanto scrissi raggiunse l'idea da me concepita dell'arte. Ne rimasi sempre inferiore".

Questo era certamente il suo più grande desiderio, un'aspirazione costante, nata negli anni della rinascita spirituale intorno al 1869 e perseguita incessantemente per tutta la vita con decisione per essere sempre disattesa dagli sfortunati eventi della sua storia personale. Era il desiderio di poter scrivere, di poter ricreare nella letteratura quel mondo interiore di poesia e trasformarlo così nella "sua arte".

Questo duplice fallimento (il mancato successo di critica e di pubblico delle sue opere e la mancata o non non rispondente alle aspettative resa artistica delle stesse) non fece che alimentare il già naturale pessimismo dello scrittore spingendolo a vivere ancor più solitariamente gli ultimi anni della sua vita.

Sulle cause del proprio insuccesso di narratore è lo stesso Pratesi che molto lucidamente ancora una volta nella stesura del suo testamento si esprimeva così: "A me sempre avversa la fortuna, e insopportabile la servitù d'uffici ingrati che mi rubarono le forze e gli anni migliori".

Con "fortuna" lo scrittore allude certamente a tutta quella serie di episodi infelici che ne punteggiarono l'esistenza indirizzandola verso esiti non troppo auspicabili e tra questi non da ultimi i problemi di salute patiti negli anni della gioventù. L'altra causa parrebbe essere invece l'esercizio degli "uffici ingrati": la sua professione di insegnante.

Mario Pratesi iniziò a svolgere la sua professione di insegnante nel 1872 a Pavia come professore di lettere italiane, professione che lo vide impegnato in varie città d'Italia fino al 1893, anno in cui accettò l'incarico di provveditore agli studi a Belluno, un impegno che per lui risultò però gravoso quanto il precedente. Soltanto nel 1906, a sessantaquattro anni, lo scrittore abbandonerà l'insegnamento ed ogni altro tipo di impiego burocratico per dedicarsi liberamente alla sua arte, senza più vincoli o limitazioni imposte dai suoi doveri professionali. Si trasferisce quindi di nuovo a Firenze dove trascorrerà in una serena solitudine gli ultimi anni della sua vita; ma le forze ormai gli vengono meno e nonostante egli abbia trovato finalmente la tanto agognata libertà, le forze da dedicare alla letteratura sono ormai svanite e non riuscirà più a produrre opere di una certa consistenza e di un certo valore.

Paradossalmente, notiamo come le due opere principali del Pratesi, "L'Eredità" ed "Il mondo di Dolcetta" siano state ultimate rispettivamente intorno al 1888 e al 1894, anni in cui lo scrittore ricopriva il ruolo d'insegnante a Milano prima, e il ruolo di provveditore agli studi a Belluno poi. È proprio in quegli anni che si rafforza l'amara convinzione che il pur nobile impiego d'insegnante fosse il più grande ostacolo al libero dispiegarsi della sua sua fantasia. Ma è una convinzione che nasce fin dai primi anni di esercizio della sua professione, quando, confinato di volta in volta in anonime cittadine della penisola, matura in lui l'idea di non poter mai essere un artista continuando a svolgere il suo lavoro.

Questo brano è tratto dalla tesi:

La narrativa di Mario Pratesi

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Informazioni tesi

  Autore: Stefano Guida
  Tipo: Laurea II ciclo (magistrale o specialistica)
  Anno: 2019-20
  Università: Università degli Studi di Roma Tor Vergata
  Facoltà: Lettere
  Corso: Filologia moderna
  Relatore: Carmine  Chiodo
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 153

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