La divulgazione artistica in tv tra accademismo e spettacolarità. Indagine ed analisi di Io e... un programma di Anna Zanoli e Luciano Emmer
Il documentario d’arte
Il documentario artistico rappresenta probabilmente l’esempio più diffuso ed efficiente di tecnologia mediatica posta al servizio della divulgazione artistica. Si tratta, infatti, di una delle forme di trasmissione dalle più antiche origini e tuttora mantiene intatto il suo ruolo privilegiato rispetto ad altri generi televisivi della stessa natura. È caratterizzato e definito da una serie di peculiarità che lo rendono uno dei più efficaci mezzi di comunicazione al grande pubblico: siamo infatti ben lontani dalla tradizionale lezione accademica incentrata nella figura del conduttore o dell’esperto in campo artistico che dispensa un compendio di informazioni su un determinato tema, assumendo talvolta un linguaggio troppo specifico e complesso per il pubblico a casa.
Nel documentario d’arte, il carattere scientifico e la spiegazione alle immagini vengono affidati ad una voce fuori campo, spesso accompagnata da una colonna musicale che va a rafforzare la carica emozionale della visione: l’obiettivo ê quello di accentuare l’aspetto narrativo del racconto documentaristico, così che anche un argomento scolastico come può essere la spiegazione di un’opera d’arte, possa comunque risultare scorrevole e accattivante. Dall’altro lato, però, la trattazione deve sempre mantenere un riscontro con la realtà, evitando l’inserimento di strategiche finzioni nel tentativo di colorire in modo più deciso la materia presentata: il documentario, infatti, differisce dal film per la sua adesione al vero, al dato reale.
Nel corso del tempo, inoltre, superate le prime resistenze e diffidenze da parte di intellettuali e critici d’arte nei confronti del piccolo schermo, il documentario artistico si è rivelato un valido supporto nell’analisi e nell’indagine critica delle opere d’arte. Tuttavia, questa duplice natura, divulgativa e scientifica, ha fatto affiorare una serie di complicazioni soprattutto in relazione al difficile tentativo di una loro conciliazione, in quanto “l’esigenza divulgativa prevede da un lato la traduzione, intesa come semplificazione di testi specialistici, e dall’altro la narrazione, ovvero l’utilizzo di elementi retorici che rendono l’oggetto trattato ‘materia di affabulazione, con motivi, trame, topoi, ruoli e funzioni’”.
Le trasformazioni e gli sviluppi che nel corso di questi cinquant’anni hanno coinvolto il tubo catodico, hanno apportato necessariamente sostanziali modifiche anche ai generi televisivi: nel nostro caso, le nuove tecnologie resero possibile una maggiore qualità delle immagini (elemento fondamentale nella lettura di un’opera d’arte); a livello linguistico e retorico, si passò da forme strettamente influenzate dall’accademismo della critica d’arte, a documentari più fluidi e coinvolgenti, quasi romanzati, nella speranza di coinvolgere emotivamente i telespettatori; infine, un’attenzione più mirata alla valorizzazione del nostro patrimonio artistico, permise l’accrescimento della varietà tipologica di trasmissioni di questo genere (documentari alle città, ai musei, a campagne di conservazione e restauro, etc.).
Nel libro “Arte in Tv. Forme di divulgazione”, Veronica Gaia di Orio pone un accento particolare a due tipologie di documentario d’arte, considerate due “classici” della produzione televisiva e cinematografica: la biografia d’artista e il focus sull’opera. Per quanto riguarda la biografia d’artista, l’errore più frequente è quello di trasformare la vita di un certo pittore, scultore, architetto, e così via, in una storia romanzata, talvolta arricchita da sfumature che non trovano riscontro con la realtà, ma motivate dalla continua ricerca di approvazione ed interesse da parte del pubblico.
Nel secondo caso, invece, il focus sull’opera d’arte diventa il soggetto primario nella macchina da presa, e il documentario stesso si trasforma in un efficace mezzo di indagine artistica. Soprattutto in questo secondo caso, risulta fondamentale quella compenetrazione tra competenza accademica e tecnologia cinematografica: solo così, infatti, il documentario potrà presentarci l’opera d’arte nella sua pienezza e perfezione delle forme, accompagnata da una critica in grado di svelarne i più celati misteri e le più ardite allusioni. È questo forse il giusto compromesso che la televisione e la cultura hanno raggiunto dopo anni di sperimentazioni e incertezze: di una tecnologia al servizio dell’arte, e di un’arte al servizio della tecnologia.
Un personaggio che ebbe grande peso nel campo del documentario d’arte fu Franco Simongini, artefice di una serie di programmi volti all’avvicinamento del grande pubblico alla lettura di opere d’arte, come, tra i tanti, A tu per tu con l’opera d’arte e Come nasce un’opera d’arte. Le sue trasmissioni rappresentano uno degli esempi più validi di connubio tra documentario televisivo e un’ adeguata critica d’arte: con la voce fuori campo di Cesare Brandi, le opere vengono, di volta in volta, studiate, analizzate, percorse nelle varie fasi della loro gestazione; ne vengono evidenziati gli elementi di continuità con le altre opere di uno stesso artista o periodo storico, in modo tale da contestualizzare un determinato manufatto artistico all’interno di un percorso stilistico e poetico organico, oppure quelli che invece costituiscono aspetti di estrema novità e di rottura di legami con il passato.
Naturalmente, soprattutto nel caso di Come nasce un’opera d’arte, il lavoro dell’artista che opera di fronte alla macchina da presa, deve essere necessariamente adattato alle esigenze tempistiche e divulgative del piccolo schermo. Si tratta, infatti, di performance appositamente realizzate per la diffusione al grande pubblico ma che costituiscono, comunque, sia un importante strumento di indagine dell’opera in questione, presentataci non più solo nella sua totalità ma analizzata nelle sue magiche ed effimere fasi di esecuzione (concepite come parte integrante e necessaria nel raggiungimento del risultato finale), sia un valido mezzo di affabulazione del pubblico televisivo, che ora può sentirsi complice indiretto di una straordinaria impresa, quasi come il testimone di qualcosa di unico nel tempo, di passeggero, che mai avrà più luogo con le stesse modalità e fattezze.
Significativa in questo senso è la puntata dedicata a Giorgio De Chirico: il Maestro si trova nel suo studio, impegnato nella realizzazione dell’opera intitolata Sole sul cavalletto (1973), di fronte alla telecamera attenta del grande regista. L’opera d’arte prende vita sotto i nostri occhi, mentre Simongini si improvvisa giornalista e intrattiene De Chirico con una serie di domande volte alla conoscenza delle sue opere e della sua persona. Il tutto ha luogo in un’atmosfera pacata e familiare, e lo stesso Simongini si trova a confrontarsi con un personaggio introverso e diffidente, tentando di andare oltre quella personalità all’apparenza burbera e di imparare a conoscere i suoi gusti, i suoi pensieri e le sue esperienze di vita. La conversazione avviene, però, con parole limpide e semplici, in modo tale che tutti i telespettatori possano così sentirsi parte di questo inedito spettacolo.
Dunque, i documentari di Franco Simongini portano nel piccolo schermo un diverso sguardo sull’arte, in grado di studiare l’opera dall’interno, ed ê così che tutti gli elementi formali, luministici, compositivi, acquistano un diverso valore, più reale e comprensibile. “Nella società contemporanea” infatti, “dominata dalle immagini e dalla fretta, si ritrova la necessità di uno sguardo lento, che possa indugiare nei particolari e leggerli come valori”.
Questo brano è tratto dalla tesi:
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Informazioni tesi
Autore: | Benedetta Fiorani |
Tipo: | Laurea I ciclo (triennale) |
Anno: | 2015-16 |
Università: | Università degli Studi di Bologna |
Facoltà: | Conservazione dei Beni Culturali |
Corso: | Lettere |
Relatore: | Alberto Cottino |
Lingua: | Italiano |
Num. pagine: | 90 |
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