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Famiglia e Successioni in Ungheria tra tardo Medioevo e prima Età moderna: il Tripartitum di Istvan Werboczy (1517)

Il diritto di famiglia presso i Romeni

Tratto distintivo della famiglia tradizionale romena è la patrilinearità: per ciò stesso era imposto ai figli, una volta sposatisi e una volta costituito il nucleo familiare, di installarsi in una propria abitazione (o in un'area della proprietà paterna riservata al figlio e al suo nucleo familiare, nel caso in cui i nuclei familiari fruissero del medesimo immobile).
Tratti determinanti della famiglia romena, mantenutisi nel corso dei secoli, sono:

• la regola per la quale lo sposo dev'essere maggiore di età rispetto alla sposa;
• l'obbligo per i figli di maritarsi secondo l'età. Si sposava prima il primogenito, poi tutti gli altri, a seconda della data di nascita;
• la regola per la quale la sposa si installa nella casa del marito. A differenza delle altre due, però, ad essa si derogava molto di più. Non era rarissimo che fosse il marito ad installarsi nella casa della moglie. Ciò – evidenzia Hanga – si nota volgendo il nostro sguardo all'origine dei cognomi romeni. Ad esempio, Ion Catrinoiu indicava in origine “Giovanni, sposo di Caterina”. È tuttavia da sottolineare come questa possibilità fosse presa in considerazione unicamente in ultima istanza. Ove possibile, era preferibile che fosse la moglie a domiciliarsi presso la casa del marito (e, post nuptias, la donna era identificata mediante il nome del marito, reso in forma femminile: Maria Mitroaia = “Maria, sposa di Mitru”).

In merito all'età del matrimonio, il diritto consuetudinario prescriveva unicamente che lo sposo dovesse essere maggiore di età rispetto alla sposa, in ciò mantenendo viva una consuetudine riscontrabile nelle popolazioni storicamente dedite alla pastorizia e al lavoro dei campi.
Non era stabilita l'età prima della quale non era possibile contrarre matrimonio. Esso avveniva comunque ad un'età molto giovane: per la sposa, parliamo di un'età compresa tra i dodici e i quindici anni. A ventiquattro anni, come esposto in una fonte moldava che Hanga riporta, le ragazze avevano ben donde di considerare come l'essere senza marito fosse honteux et méprisable.

Volendo quindi instaurare una comparazione con l'età al primo matrimonio delle fanciulle italiane, possiamo riscontrare un certo parallelismo: Santa Umiliana dei Cerchi si sposò nel 1235 a sedici anni, Santa Chiara da Pisa e Santa Francesca dei Ponziani, rispettivamente, nel 1374 e nel 1396 alla comune età di dodici anni.
Precisiamo che questa età così tenera non era appannaggio esclusivo delle regioni italiane: a Chartres, ad esempio, nella medesima epoca, Santa Hildeburgis fu data in sposa intorno ai quattordici anni. “Meglio” andavano le cose a Tolosa, ove le spose avevano un'età usuale di sedici anni.

La diffusione della pratica di dare in sposa le proprie figlie così presto fece sì che gli Statuti si attivassero al fine di proibire che fanciulle appena puberi fossero date in sposa: quelli di Pistoia, del 1296, stabilivano i tredici anni come età prima della quale la ragazza non poteva contrarre matrimonio.
Le disposizioni statutarie permisero, ad un certo livello, di riscontrare una età media al primo matrimonio maggiore rispetto al secolo precedente: in Toscana, ad esempio, nell'arco di un secolo (1372-1470) si passò da un'età media di 16,2 anni a un'età media di 21.
Il matrimonio seguiva i dettami dei canoni ortodossi e come tale era considerato un sacramento.

Esso era preceduto da un rituale con una forte valenza sociale, cioè la promessa di matrimonio (che nei documenti prende il nome di incredintare).
In accordo con il principio per cui era la libera volontà degli sposi che dava fondamento al matrimonio, ma la realizzazione pratica dell'idea poteva compiersi unicamente mediante il consenso dei parenti, era la famiglia dello spasimante che inviava i suoi petitori alla famiglia della sposa, per saper se avrebbero potuto accettare la proposta dello spasimante.
Essi rappresentavano l'equivalente dei nostri sensali di matrimonio.

A Venezia e in Dalmazia sono attestati fin dal dodicesimo secolo, col nome di prosseneti o messeti.
Il Constitutum legis di Pisa li nomina mediante il termine poi passato all'italiano, cioè “sensali di matrimonio”. Il loro lavoro consisteva nell'intermediazione tra le due famiglie, trasmettendo alla famiglia della sposa le richieste dell'aspirante e successivamente riportando a quest'ultimo le condizioni poste dalla famiglia della sposa. Accettando le condizioni, l'aspirante firmava dei fogli contestualmente alla firma dei quali pagava il prezzo dovuto all'intermediario, che, avvenuti gli sponsali, esauriva la sua funzione.

Terminata la mediazione, lo spasimante, unitamente ai propri genitori e ai sensali, si presentava alla casa della donna, domandando ritualmente se, per caso, essa non fosse nascosta da qualche parte nella casa, in una suggestione allegorica della caccia alla selvaggina.
Compiuto il primo, necessario, passo, non era tuttavia sufficiente, poiché per perfezionare la promessa di matrimonio era necessaria la solenne benedizione del prete (o del vescovo, nel caso si trattasse della figlia di un nobile; in questo caso era altresì necessario il consenso del signore/dominatore/sovrano locale) il quale, col tempo, ma non ovunque, andò a sostituire gli oameni buni (“uomini buoni”, gli anziani del villaggio) delle consuetudini daciche.

Davanti al prete erano scambiati gli anelli. A ciò seguiva un banchetto e il pagamento (alla sponsata ma più frequentemente alla sua famiglia) della arrha sponsalicia al fine di dare garanzia della celebrazione del matrimonio. Infrangendo la promessa e non avendo più luogo il matrimonio, la capara (termine per indicare le arrhae mutuato dall'italiano) era restituita, cosicché essa assumeva il ruolo che in diritto romano aveva la arrha poenitentialis.

In merito alla materia degli sponsali notiamo innanzitutto che nel diritto giustinianeo le disposizioni rilevanti sono il risultato dell'incontro di due correnti:

• una che virava nel senso di una maggiore libertà nel contrarre matrimonio, la quale risulta in C. 5.1.1, C. 5.1.5, C. 5.4.14 e C. 5.17.2, per i quali non era da proibirsi ad alcuna, desponsata, la possibilità di rinunciare alle condizioni stabilite per sposare altri;

• un'altra, che pone il limite della giusta causa agli atti rinunciativi. C. 1.4.16 e C. 1.5.15 dispongono che giuste cause di rottura degli sponsali erano la conduzione di una vita turpe e l'ostacolo consistente nel professare una diversa religione. Era comunque fatto salvo il diritto alla restituzione delle arrhae e dei doni nuziali nella misura del doppio di quanto ricevuto. Unica eccezione al principio – Nov. 123.39 – era la rottura degli sponsali da parte del fidanzato per entrare in convento.

La seconda corrente fu influenzata dai principi cristiani, che, pur non cancellando la denominazione e la sostanza degli istituti, li consacrarono ritualmente, rendendoli al contempo, per coloro i quali li avessero contratti, forieri di un vincolo giuridico e morale.
Degna di nota è la conclusione del cerimoniale degli sponsali mediante lo scambio di un bacio, cosicché l’osculum interveniens andasse a suggellare l'unione delle due anime.
La benedizione degli sponsali – fenomeno che trova la sua origine nella pratica della Chiesa orientale – compiuta davanti ad un religioso rendeva la promessa obbligatoria. Proprio in conseguenza dell'obbligatorietà dell'esecuzione, in caso di rottura erano comminate pene, in contrasto con la normativa suesposta.
Il recupero della normativa classica si verificò nei primi secoli dell'alto medioevo, dopo che la ragione, addotta a base della intransigenza nella comminatoria delle pene in caso di rottura degli sponsali e consistente nella licenziosità dei ripudi, venne meno. Così:

• la parte colpevole doveva scontare la colpa permettendo alla controparte di trattenere i doni nuziali;

• in mancanza di colpa, con il consenso di ambo le parti, i donativi erano reciprocamente restituiti.

La influenza canonica sulla originaria normativa romana porta ad una uniformità di costumi nei territori d'Italia, differenziantisi gli uni con gli altri solo in merito alla preventiva stipulazione della promessa – con successiva fideiussione/wadia – tra mundualdo della donna e futuro marito, alla quale faceva seguito il passaggio del mundio sulla donna, per i territori longobardi.

È da sottolineare come tuttavia, fatto salvo questo rituale divenuto nel tempo sempre più formale e sempre meno sostanziale, lo stesso mos dei Longobardi fu influenzato dalla normativa romano-cristiana, come ben si nota nell'istituto della subarrhatio cum anulo che va, negli ultimi secoli altomedievali, ad indicare la promessa di suam facere la sposa al momento delle nozze e non più all'istante, come era in precedenza.
Anche in epoca post-irneriana, le formalità germaniche continuarono a sopravvivere in ambiente toscano.

Le consuetudini milanesi riportano senza significative variazioni la normativa romana in materia, mentre a Modena l'uomo che passi ad altra unione dopo gli sponsali è dichiarato bigamo e sottoposto conseguentemente alle pene per bigamia.
Fu comunque appannaggio del diritto canonico l'elaborazione di una dottrina degli sponsali più completa. Possiamo in tal senso riferirci al Concilio di Trento, in quanto con esso si venne a riaffermare, sintetizzandola, l'elaborazione secolare dei canonisti in materia. Per cui:

• i due fidanzati, compiuti gli sponsali, devono mantenere la fides sponsalitia;
• la conclusione degli sponsali costituisce un impedimento – dirimente – di pubblica onestà al contrarre nozze con altri;
• in accordo con il principio per cui è il libero consenso degli sposi che costituisce il matrimonio, in presenza del mutuo consenso degli sposi è giustificata la rottura degli sponsali;
• le nozze contratte dopo aver rotto gli sponsali sono illecite ma valide.

Concludiamo ora questi brevi cenni sul diritto familiare prendendo in considerazione l'istituto dell'affratellamento.
L'affratellamento intercorreva tra due persone senza riguardo al sesso, e i due affratellati promettevano solennemente di unirsi e aiutarsi fraternamente fino alla morte, come mostra l'espressione più ricorrente nei rituali di affratellamento, ossia ca sa fie frati nedespartiti in veci (“che siate fratelli inseparabili, per sempre”).

Vi erano due tipi di affratellamento:

• un “affratellamento sulla terra” con il quale si entrava insieme in chiesa, si celebrava il rito e, una volta affratellati, si diveniva titolari di diritti successori reciproci. Non era escluso che i due affratellati mettessero in comune le proprie sostanze per formare una communio omnium bonorum;

• un “affratellamento dei combattenti” perfezionato con un rituale ancestrale consistente nella reciproca incisione di una mano alla quale seguiva la succhiata del sangue fluente dall'incisione. Il rituale era tipico dei tempi di guerra e simboleggiava l'unione tra due casate o due popoli che si univano in combattimento.

Notiamo quindi che la principale differenza tra l'evoluzione del nostro istituto e l'evoluzione di quello romeno risiede nella mantenuta distinzione tra i due tipi di affratellamento.
L'affratellamento con il sangue non è certo unicamente appannaggio del popolo daco-romeno poiché è riscontrabile nelle popolazioni slave come in quelle germaniche che premevano ai confini dell'Impero romano. Simboleggiando la unione e la consanguineità, comportava il rispetto dell'obbligo di fedeltà reciproca e dei diritti di successione, di retratto e di vita in comune.
Lo abbiamo riscontrato anche presso il popolo ungherese (si veda p. 16).

Tali pratiche ancestrali, da noi, lasciarono il posto ad un unico tipo di affratellamento: nonostante i dubbi riguardo l'ammissibilità dell'istituto, avanzati dai canonisti (si veda p. 144), riscontriamo l'avvenimento di cerimonie religiose riguardanti delle adfratationes.
In Sicilia, in particolare, come in Romania, l’adfratatio avveniva in chiesa e, davanti al sacerdote, era dichiarata l'intenzione, poi suggellata dalla benedizione, di divenire “fratelli in Cristo”.
In merito alla possibilità di costituire una societas omnium bonorum, la pratica è parimenti riscontrata nelle nostre consuetudini altomedievali.
Le ragioni economiche e le necessità difensive, in un'epoca in cui la forza statuale non era paragonabile a quella dell'antico Impero o a quella delle Istituzioni dell'età statutaria, importavano un favore per l'accrescimento del numero dei componenti della famiglia, mediante ingressi suggellati dall'espletamento del rituale di affratellamento.

Essendo un istituto che traeva l'origine nella necessità, una volta che essa venisse meno, ogni vivente in comune, desiderandolo, poteva distaccarsi dal nucleo del quale era entrato a far parte.
L'istituto declina di pari passo con l'instaurarsi di una sempre più forte autorità statuale: esemplifica questo declino la documentazione dell'area di Bari, ove l'istituto è menzionato fino al dodicesimo secolo.

Questo brano è tratto dalla tesi:

Famiglia e Successioni in Ungheria tra tardo Medioevo e prima Età moderna: il Tripartitum di Istvan Werboczy (1517)

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Informazioni tesi

  Autore: Emilio Caramico
  Tipo: Tesi di Laurea Magistrale
  Anno: 2017-18
  Università: Università degli Studi di Milano
  Facoltà: Giurisprudenza
  Corso: Giurisprudenza
  Relatore: Angela Maria Santangelo Cordani
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 200

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