Il diritto di critica del lavoratore nel rapporto di lavoro subordinato
Il diritto di critica sindacale
Merita particolare attenzione, per la rilevanza che il fenomeno ricopre nelle relazioni industriali, l’azione sindacale in quanto, nell’ambito di un conflitto, è di norma contrapposta agli interessi datoriali e può fisiologicamente manifestarsi sotto forma di critica e polemica, anche aspra e vivace.
Perciò, si ritiene che “le circostanze in cui si attua il contrasto tra forze sindacali e datore di lavoro possono rilevare, se non come scriminanti, come attenuanti nella valutazione dei comportamenti posti in essere da entrambe le parti contendenti, e in particolare dal lavoratore dirigente sindacale; comportamenti che vanno necessariamente inquadrati nell’ambito di tale contesto conflittuale”.
Da un punto di vista normativo, però, si deve far riferimento non solo al più volte citato articolo 21 Cost., ma anche all’articolo 39 Cost., in cui nel primo comma viene disciplinata la libertà sindacale e riconosciuta al sindacato la facoltà di coalizione e di azione in difesa di interessi collettivi: nell’esercizio di queste attività viene certamente ricompresa anche la possibilità di criticare l’operato del datore stesso.
Dal punto di vista del diritto di critica, il lavoratore che riveste anche la qualifica di rappresentante sindacale, non può essere, innanzitutto, equiparato ad un normale lavoratore privo di tale veste anche se, come affermato dalla Suprema Corte, viene sottoposto al medesimo vincolo di subordinazione degli altri dipendenti.
L’attività del lavoratore – sindacalista si pone su un piano paritetico rispetto a quella del datore di lavoro, costituendo questa espressione degli interessi collettivi dei dipendenti nei confronti di quelli contrapposti del superiore ed è il motivo per cui non può essere subordinata alla volontà di quest’ultimo.
Alla luce di quanto esposto, quindi, si può affermare che le opinioni espresse dal lavoratore nell’esercizio della funzione sindacale, anche qualora si traducano in contestazioni all’autorità e alla supremazia del datore di lavoro, non integrano un’ipotesi di insubordinazione, proprio perché se così fosse, l’azione sindacale, che rappresenta una critica al superiore, finirebbe per essere svuotata di significato.
A causa della scissione tra i due differenti ruoli rivestiti dal lavoratore – parte del rapporto di lavoro e rappresentante sindacale – è da escludersi che il diritto di manifestare una critica nei confronti del superiore gerarchico nell’ambito dell’attività sindacale possa entrare in conflitto con l’obbligo di fedeltà ex art. 2105 c.c., proprio perché tale vincolo si esplica su un diverso piano dei doveri, che devono essere rispettati con riferimento all’espletamento della prestazione lavorativa.
Alle manifestazioni di dissenso aventi carattere sindacale vengono, quindi, riconosciuti “margini di tollerabilità più elevati”, un quid pluris che giustifichi l’utilizzo di espressioni che sarebbero considerate altrimenti lesive del vincolo fiduciario caratterizzante il rapporto di lavoro; ciò assume particolare rilevanza, quindi, in relazione alle modalità che vengono utilizzate per esprimere un pensiero, con una conseguente attenuazione dell’importante criterio della continenza formale.
Quindi, il lavoratore sindacalista, infatti, è portatore dell’interesse collettivo della comunità dei lavoratori iscritti al sindacato con la conseguenza che lo stesso ha il diritto di contestare e criticare le decisioni datoriali che riguardano i suddetti lavoratori, intesi sia nella loro individualità che come categoria, con gli strumenti che l’ordinamento prevede.
Il diritto di esprimere le proprie idee in forma critica non può costituire violazione di altri beni costituzionalmente garantiti a meno che il dissenso sia prudentemente e adeguatamente ordinato al soddisfacimento di interessi di rilievo giuridico che siano almeno pari a quello del bene leso. In applicazione di tale principio, il giudice, dunque, deve analizzare caso per caso e disporre la regola del “bilanciamento degli interessi” coinvolti, verificando se in concreto la critica del lavoratore è finalizzata o meno alla salvaguardia di un interesse o di un bene giuridicamente riconosciuto e di pari o superiore dignità rispetto all’interesse del datore di lavoro a non essere screditato.
L’evoluzione giurisprudenziale ha evidenziato che il giudice di merito ha il compito di verificare se il comportamento del prestatore di lavoro rientra nelle sue prerogative sindacali e se si renda utile alla piena tutela dei diritti relativi alla condizione lavorativa, mentre, qualora si ritenga che il dissenso espresso non sia funzionale all’attività sindacale, bisogna valutare se la manifestazione del pensiero critico rispetti i requisiti di continenza formale e sostanziale.
Il presupposto imprescindibile della liceità della critica sindacale, pertanto, va rinvenuto nel fatto che la questione trattata riguardi un argomento che il sindacato abbia assunto ad oggetto della propria azione, cosicché la critica mossa dal sindacalista sia da considerarsi illegittima qualora non consista in un esercizio proprio dell’attività sindacale, essendo quindi espressione del pensiero del singolo e si sostanzi in una manifestazione ingiuriosa ai danni del datore idonea a pregiudicare la sua reputazione e la sua immagine.
Tali condizioni, invero, devono sussistere congiuntamente in quanto nel nostro ordinamento non troverebbe riscontro una condotta sindacale che accentui il conflitto collettivo tramite un’offesa del datore anche se la stessa sia indirizzata a conseguire un fine contrattuale lecito. La valutazione della dimensione funzionale diviene così decisiva sul piano sistematico per qualificare la condotta del lavoratore ai fini disciplinari.
Difatti, il requisito della pertinenza, in ambito lavorativo e sindacale, non solo amplia il diritto di critica rispetto a quello riconosciuto uti cives, ovvero non richiedente la sussistenza di un interesse pubblico o sociale alla conoscenza dei fatti divulgati o delle opinioni espresse dal dipendente, ma per di più prevede diversi gradi di responsabilità, ai fini della rilevanza disciplinare, per le critiche espresse dal lavoratore.
Pertanto, il giudice di merito deve inizialmente valutare se la condotta mossa dal lavoratore con funzioni sindacali sottenda un interesse collettivo di una determinata categoria di prestatori di lavoro e, solo successivamente, considerare l’assenza di un intento diffamatorio e dell’effettività del danno.
Qualora non si dovesse ritenere sussistente un interesse collettivo posto alla base della manifestazione del pensiero critico, l’attenzione del magistrato deve spostarsi sulla verifica della sussistenza dei requisiti di continenza formale e sostanziali.
In tal modo, infatti, potrà verificare che al di là della qualità di sindacalista, il lavoratore avesse un diritto di libertà di critica esente dall’ambito di applicazione dell’obbligo di fedeltà.
Alla luce di quanto esposto, si può considerare un ricorso su cui si è pronunciata la Cassazione avverso una sentenza della Corte di Appello, che aveva confermato la sentenza di primo grado di condanna per il reato di diffamazione pronunciata nei confronti del segretario generale di un sindacato: la condotta contestata riguardava una grave offesa alla reputazione del Direttore di un carcere che si era verificata affiggendo nella bacheca all'interno della stessa un comunicato con cui veniva attribuita al lavoratore la responsabilità di avere autorizzato la diffusione di alcool tra i detenuti.
La Corte di Cassazione - nell’accogliere la tesi difensiva secondo si era realizzata, nel caso di specie, un’ipotesi di “critica sindacale”, riguardante la scelta del direttore di utilizzare o meno i propri poteri di regolazione del consumo di vino - ha ritenuto che le espressioni adoperate nel volantino, seppur aspre, rientrassero nel legittimo diritto di critica sindacale: nel caso concreto, essendo i confini sicuramente più ampi rispetto a quelli imposti al diritto di cronaca, non apparivano esulare dai limiti di continenza formale e trasmodare in una immotivata e gratuita aggressione alla sfera personale del soggetto passivo.
Questo brano è tratto dalla tesi:
Il diritto di critica del lavoratore nel rapporto di lavoro subordinato
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Informazioni tesi
Autore: | Alice Amoretti |
Tipo: | Laurea magistrale a ciclo unico |
Anno: | 2020-21 |
Università: | Università degli Studi di Pavia |
Facoltà: | Giurisprudenza |
Corso: | Giurisprudenza |
Relatore: | Marco Ferraresi |
Lingua: | Italiano |
Num. pagine: | 177 |
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