Musica Sacra e Profana nel Purgatorio
Il canto VII: Salve, Regina e i principi negligenti
Proseguendo nel cammino offertoci da Dante, troviamo un'altra serie di riferimenti musicali nei tre canti che conducono alla fine dell'Antipurgatorio, verso l'ingresso del Purgatorio vero e proprio. Dopo che Catone ha disperso i nuovi arrivati, alla fine del canto II, i due pellegrini hanno conosciuto i morti scomunicati – tra i quali spicca Manfredi, i pigri a convertirsi e i morti di morte violenta, fino ad arrivare a Sordello da Goito, il quale accompagnerà Dante e Virgilio alla fine dell'Antipurgatorio, fino alle porte del monte. Tutta questa vicenda si svolge lungo tre canti, dal VII al IX, e in tutti e tre troviamo riferimenti musicali sacri, di fatto tre salmi molto conosciuti, ognuno con un significato preciso.
Nel canto VII, dopo che Sordello e Virgilio si sono salutati (vedi l'abbraccio di VI 75), il poeta latino si presenta e narra al suo concittadino come è stato perduto (VII 4-8):
“Anzi che a questo monte fosser volte l'anime degne di salire a Dio, fur l'ossa mie per Ottavian sepolte.
Io son Virgilio; e per null'altro rio
lo ciel perdei che per non aver fé”.
Sordello non riesce a credere a ciò che vede, e quando comprende quale anima trova davanti a sé lo abbraccia “là 've 'l minor s'appiglia” (VII 15). Al che il poeta moderno incalza il latino, chiedendogli cosa abbia fatto per meritarsi di parlare col più grande poeta romano, e da quale girone infernale è venuto. Virgilio risponde così (vv. 22-30):
“per tutt'i cerchi del dolente regno”,
rispuose lui, “son io di qua venuto;
virtù del ciel mi mosse, e con lei vegno.
Non per far, ma per non fare ho perduto a veder l'alto Sol che tu disiri e che fu tardi per me conosciuto.
Luogo è là giù non tristo di martiri, ma di tenebre solo, ove i lamenti non suonan come guai, ma come sospiri.
Il grande poeta continua a descrivere il Limbo: sono là posti i bambini morti prima del battesimo, e le grandi anime dell'antichità che ebbero le virtù naturali e intellettuali, ma non le tre virtù teologali. Quando Virgilio ha risposto alle curiosità del concittadino, gli chiede per quale via lui e Dante possono salire al monte del Purgatorio; Sordello risponde che non c'è un punto preciso dove salire, e si offre di accompagnarli, ma li ammonisce (vv. 43-45):
“Ma vedi già come dichina 'l giorno, e andar su di notte non si puote; però è buon pensar di bel soggiorno”.
Tale impedimento può essere benissimo reale, non essendoci altre fonti luminose di notte, ma in questa indicazione si può leggere chiaramente un significato allegorico: la luce del Sole rappresenta la guida che Dio offre ai penitenti, e senza la quale essi sono ancora perduti, pertanto non possono procedere oltre di notte. Tuttavia questo ostacolo, precisa Sordello su esplicita richiesta di Virgilio, è più interiore che esteriore – vale a dire che le anime senza la guida di Dio si sentono perdute, a questo livello della loro redenzione – e non impedisce di tornare indietro sui propri passi. Sordello, data l'impossibilità di procedere, offre ai due viandanti di presentare loro un gruppo di anime speciali, e Virgilio si dimostra desideroso di conoscere questi personaggi; i tre si imbattono in una scena bizzarra: in una “lacca” (v. 71) variopinta come la tavolozza di un artista, al punto che “ciascun saria di color vinto” (v. 77), si trova un gruppo di anime tristi e malinconiche, raccolte nell'atto di cantare un salmo esemplificativo della loro situazione, Salve Regina.
Salve, Regina, Mater misericordiae, Vita, dulcedo / et spes nostra, salve! Ad te clamamus exsules filii Hevae Ad te suspiramus / gementes et flentes / in hac lacrimarum valle. Eia ergo / advocata nostra, / illos tuos misericordes oculos / ad nos converte. Et Iesum benedictum fructum ventris tui, / nobis post hoc exilium ostende. O clemens, / o pia / o dulcis Virgo Maria.
Il salmo che cantano i principi è un canto del vespro ben conosciuto ai più: si tratta di un'invocazione da parte degli Ebrei alla Madre Vergine affinché li consoli, afflitti per la lontananza dalla patria. La preghiera contiene la famosa espressione “valle di lacrime”, che ben si adatta alla condizione purgatoriale dei penitenti: in confronto alla bellezza della patria natìa, il luogo e la situazione in cui si trovano riserva solo tristezza e malinconia. Si tratta perciò di un canto dell'esilio, della lontananza dalla patria – ossia del Paradiso – e delle sofferenze che sono riservate ai penitenti prima di potervi accedere.
Viene naturale, inoltre, leggere l'esilio in chiave autobiografica, in quanto Dante ha sempre sospirato di poter tornare nella sua patria, Firenze, senza speranza. Da un punto di vista musicale, questo canto presenta le stesse caratteristiche presenti nel samo In exitu Isräel de Aegypto: si tratta di un canto monodico, che viene eseguito quindi a una voce da tutti i penitenti – come, in terra, cantano i fedeli tutti assieme. Fino all'epoca di Dante, i canti sacri cantati in chiesa in latino erano la norma, mentre i canti in volgare italico cominciarono a diffondersi proprio nel tardo Duecento, in un momento di difficoltà per la Chiesa. Essendo il Purgatorio un luogo di preghiera, essenzialmente, a dante viene spontaneo paragonare questo luogo a un'immensa chiesa, dove i penitenti espiano i loro peccati attraverso il canto dei salmi, che indica peraltro la ritrovata armonia tra microcosmo e macrocosmo, tra musica instrumentalis e musica humana.
Coloro che cantano il salmo sono i cosiddetti 'principi negligenti', così definiti perché in vita hanno pensato più ai loro interessi personali che a farsi da guida temporale e morale per i loro sudditi, e la valletta in cui sono costretti fa da contrappasso a questa loro mancanza: i bei colori di cui la “lama” è decorata ricorda loro le sfarzose corti che hanno guidato in vita, e i copiosi beni materiali che hanno posseduto, che però non possono più avere – e nemmeno può essere loro di aiuto, ora che serve ben altro per conquistarsi il Paradiso. Questa lettura rimarca la lettura della valletta come “misura della vanità” degli agi delle corti, ed è emblematica non solo della condizione dei principi, ma anche di quella di tutti i pellegrini purgatoriali, Dante compreso; e come suggerisce Ciro Perna nel suo commento al canto VII, al tramonto – che è anche il momento in cui viene recitato il salmo nella liturgia quotidiana – essi temerebbero il ritorno delle tentazioni demoniache, e chiedono a Maria di proteggerli nelle ore più buie. Essi hanno capito che, tra le amenità rappresentate nella valle fiorita, si cela ancora la loro condizione privilegiata, che li rende più esposti alle sirene del peccato.
Successivamente, Sordello fa una rassegna degli spiriti che si trovano nella valletta: “Rodolfo imperador”, che “più siede alto e fa sembianti/d'aver negletto ciò che far dovea” (vv. 90-91,94), ossia Rodolfo I d'Asburgo, re di Germania e d'Italia che non si fece mai incoronare imperatore – anche se per Dante lo è stato; Ottocaro II, re di Boemia dal 1253 al 1278, avversario politico e militare di Rodolfo I, che ora conforta il suo stesso nemico, indice della nuova condizione in cui si trovano; Vincislao II, figlio di Ottocaro, che si perse nel lusso; Filippo III l'Ardito, “quel nasetto” re di Francia dal 1270 al 1285, “ch'a stretto consiglio/par” con Enrico I di Navarra, i quali sono “padre e suocero del mal di Francia” (VII 103-4, 109), ossia Filippo IV il Bello; “Quel che par sì membruto e che s'accorda,/cantando, con colui dal maschio naso” (VII 112-13), Pietro III d'Aragona e Carlo I d'Angiò, che piangono anch'essi la loro discendenza, che “del retaggio miglior nessun possiede” (VII 120); Arrigo d'Inghilterra, unica eccezione alla regola, per cui suo figlio, Edoardo I, detto 'il Giustiniano inglese' per aver portato ordine nella legislazione britannica, fu superiore al padre; infine “Quel che più basso tra color s'atterra,/guardando in suso, è Guiglielmo marchese,/per cui e Alessandria e la sua guerra/fa pianger Monferrato e Canavese”(VII 133-36), ossia Guglielmo VII 'Spadalunga', marchese di Monferrato, che causò la guerra portata avanti dal figlio Giovanni contro Alessandria, dove il padre era stato imprigionato a seguito della ribellione della città. Come si vede, Sordello espone i rappresentanti fra i più esponenti della nobiltà precedente a quella contemporanea di Dante, peggiore di quella passata con la sola eccezione di Edoardo I. Ciò avviene, dichiara Sordello, perché (vv. 121-23):
Rade volte risurge per li rami l'umana probitate; e questo vole quel che la dà, perché da lui si chiami.
Dante usa qui una metafora naturale: “L'umana probitate” non è ereditaria, come i rami nascono uguali da un albero, ma è un dono di Dio dato individualmente agli uomini. Questa credenza viene ripetuta anche nel Convivio. Allo stesso modo, la virtù dell'anima dei grandi nobili non passa ai figli, che anzi il più delle volte dissipano ciò che i padri hanno costruito.
Questo brano è tratto dalla tesi:
Musica Sacra e Profana nel Purgatorio
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Informazioni tesi
Autore: | Marco Bottamini |
Tipo: | Laurea I ciclo (triennale) |
Anno: | 2014-15 |
Università: | Università degli Studi di Bologna |
Facoltà: | Lettere e Filosofia |
Corso: | Lettere |
Relatore: | Giuseppe Ledda |
Lingua: | Italiano |
Num. pagine: | 49 |
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