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Motivazione e sport: modelli emblematici nel mondo contemporaneo

Il "burn-out" e il "drop-out"

Nell'importante capitolo della demotivazione risaltano due situazioni, o meglio, in alcuni casi, due sindromi: il burn-out e il drop-out.
Con il primo termine si intende, un soggetto "bruciato", "esaurito". E infatti, in psicologia clinica, questa definizione viene usata per descrivere uno stato di esaurimento fisico ed emotivo conseguente a condizioni lavorative non gratificanti. Di difficile collocazione nosografica, potrebbe trovare posto, oltre che nell'aria della motivazione, anche in quella dello stress e della psicopatologia. Con il secondo termine, letteralmente "sgocciolare", si indica il fenomeno dell'abbandono precoce. Il burn-out, osservato inizialmente nelle cosiddette helping professions, o professioni di aiuto (quali quelle di medico, psicoterapeuta, infermiere, assistente sociale, insegnante), era stato individuato in un gruppo di volontari che, dapprima entusiasti del proprio lavoro assistenziale, manifestavano successivamente un quadro contrassegnato da facile faticabilità, apatia, abulia, depressione. Studiata, in seguito, sempre più in dettaglio, la sindrome si presenta come una ritirata psicologica del lavoro in risposta a stress o insoddisfazione, con abbassamento del livello di spinta motivazionale, di interesse, di piacere, di senso di responsabilità nei confronti del lavoro stesso.
In sostanza, ci si troverebbe in presenza di esaurimento emotivo (con la sensazione di svuotamento di energia fisica e mentale e il vissuto di non aver più nulla da offrire a livello psicologico), depersonalizzazione (con atteggiamenti di oppositività fino alla negatività, se non addirittura all'ostilità nei confronti delle persone del proprio ambiente lavorativo) e ridotta realizzazione professionale (con crollo dell'autostima e della voglia di arrivare e senso, quindi, di inadeguatezza professionale).
In definitiva, il burn-out non sarebbe altro che l'espressione di una situazione di stress occupazionale, ossia conseguente a situazioni stressogene quali ambiguità di ruolo, ridotto potere consultivo e decisionale, inadeguato riconoscimento delle capacità o, quantomeno, delle potenzialità, carenza di spinte coesive del gruppo. In questo senso il concetto di burn-out potrebbe essere applicato in tutte quelle situazioni lavorative nelle quali l'operatore si trovi a contatto in maniera frequente ed intensa con l'utente, con carichi affettivi impegnativi e accompagnati da stati di ansia, tensione o frustrazione. Non tutti gli studiosi, tuttavia, sono d'accordo sulla possibilità di riportare il modello anche in campo sportivo o, quanto meno, c'è chi ne ipotizza l'uso solamente nel caso di tecnici, allenatori e preparatori atletici, resi omologhi agli insegnanti, e chi ne afferma, invece, l'importanza anche negli atleti. In questo caso il burn-out corrisponderebbe alla perdita progressiva di idealismo, energia e scopo come risultato di stress lavorativo conseguente, nel contesto sportivo, alle pressioni socio-economiche, al non dover deludere le aspettative di dirigenti, sponsor e tifosi, al dover sempre progredire sul piano dei risultati. Nella genesi del burn-out nello sport, oltre allo stress, con tutte le conseguenze sul piano delle risposte psiconeurofisiologiche e ormonali, si affianca anche la teoria dello scambio sociale.
Secondo questa teoria l'uomo sarebbe portato a fare un bilancio tra premi e costi: fintantoché i primi prevalgono sui secondi l'atleta continuerebbe a trovare motivazioni e impegno, ma nel momento in cui i costi da pagare cominciassero a superare i benefici, neppure sempre sicuri, si avrebbe un ritiro psicologico fino a un effettivo abbandono.
Ciò che deve restare costante, tuttavia, affinché non si presenti il fantasma del burn-out per l'atleta (come d'altra parte per il tecnico e per tutte le altre figure professionali che concorrono al conseguimento della prestazione dell'atleta stesso), è il bisogno di soddisfazione e di gratificazione o, meglio, di riconoscimento, vale a dire il poter continuare a sentirsi utile, importante, approvato e inserito nel gruppo; al contrario, la paura del fallimento, un rapporto non soddisfacente con l'allenatore o con i compagni di squadra, la pressione psicologica non correttamente canalizzata, la noia e la frustrazione, sono tutte situazioni che i responsabili della conduzione del gruppo dovrebbero sempre avere ben presenti.
Diverso risulta essere il caso del drop-out, ma non meno allarmante se è vero che circa il 30% degli adolescenti praticanti attività sportiva, tra maschi e femmine, va incontro a questo fenomeno.
Svariati sembrano essere i motivi per cui un giovane atleta, in verosimile evoluzione tecnica e fisica, dopo un periodo di attività (gare ma anche, e di più, allenamenti) già abbastanza lungo, decida di interrompere il proprio impegno.
Molti psicologi sembrano d'accordo su alcune cause che portano all'abbandono precoce; si può distinguere tra quelle legate alla sfera della "crescita" del ragazzo come persona e quelle dipendenti strettamente dall'attività sportiva.

Tra le prime, risultano essere degne di considerazione:

a) le crisi adolescenziali: il ragazzo non si riconosce più nel nuovo corpo che si sta trasformando modificandogli le "coordinate" fisiche e relazionali e, quindi, anche le prestazioni e la considerazione degli altri;

b) le difficoltà scolastiche: non tutti gli adolescenti riescono a reggere contemporaneamente il doppio impegno scuola/sport conservando lo stesso rendimento;

c) il bisogno di esperienze: diverse se nuove, base necessaria alla conoscenza del mondo e alla costruzione del proprio io.

Tra le seconde, un ruolo importante lo giocano sicuramente:

a) la monotonia dell'allenamento: spesso poco produttivo in quanto protratto oltre il limite di comparsa della noia senza dare obbiettivi alternativi e diversificati;

b) l'ansia: nella forma preagonistica specialmente, in quanto, anche per la giovane età, non sempre la capacità di gestione delle emozioni è ottimale;

c) l'integrazione del gruppo: non sempre facile in quanto lo sport, per sua natura, salvo alcuni casi, favorisce più l'espressione dell'individualità che non quella della coesione, come invece in questa fase della vita è prioritario;

d) il rapporto con l'allenatore: giacché il ragazzo, pur "proiettando" spesso valenze genitoriali ideali nei confronti del proprio istruttore, non sempre si sente capito o addirittura lo percepisce come un impedimento alla propria crescita e alla propria autonomia.

Questo brano è tratto dalla tesi:

Motivazione e sport: modelli emblematici nel mondo contemporaneo

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Informazioni tesi

  Autore: Antonio Chiodo
  Tipo: Laurea II ciclo (magistrale o specialistica)
  Anno: 2009-10
  Università: Università degli Studi di Catanzaro Magna Grecia
  Facoltà: Medicina e Chirurgia
  Corso: Organizzazione e gestione dei servizi per lo sport e le attività motorie
  Relatore: Pasquale De Fazio
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 89

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