Quando l'abito è il messaggio. Il costume cinematografico come costruzione identitaria.
Icone tra finzione e realtà
Un film, in quanto immagine in movimento, trova la sua essenzialità ed il suo elemento primario proprio nell'immagine stessa. Sergey Ejzenstejn, teorizzando sulla fotografia, a proposito del colore afferma che questo ha un mero significato culturale e non assoluto, che quindi possa acquisire diversi significati in diverse culture. Erwin Panofsky pone attenzione sulla distinzione tra due livelli concernenti le immagini : un livello iconografico, che comprende la vera e propria comprensione di quanto viene raffigurato, e un livello iconologico, più vicino ai valori simbolici.
Ancora più utile possono esserci le parole Panofsky quando si concentra sugli attori: “il protagonista di un film vive e muore con l’attore. Il lavoro teatrale è continuo ma transitorio, quello cinematografico è discontinuo ma permanente”; grazie a questa affermazione si chiarisce maggiormente la possibilità dell'icona cinematografica di insinuarsi nell'immaginario collettivo della gente. Un’Icona, come ricorda Peirce “è un segno che si riferisce all’Oggetto che essa denota semplicemente in virtù di caratteri suoi propri, e che essa possiede nello stesso identico modo sia che tale Oggetto esista effettivamente, sia che non esista. E’ vero che, a meno che vi sia realmente un tale Oggetto, l’Icona non agisce come segno; ma questo non ha nulla a che fare con il suo carattere di segno”. Il costumista (chiaramente in collaborazione con il regista) deve conferire al personaggio una serie di caratteristiche visive; spesso queste caratteristiche sfociano in fenomeni come il divismo dove spesso l’elemento prevalente a connotare il personaggio è il costume.
Tra gli anni venti e gli anni trenta del novecento Hollywood decide di puntare con forza su ciò che da tempo sperimenta con il cinema muto e che probabilmente avrebbe reso molto di più con l'avvento del sonoro: il divismo, che diviene presto il cardine assoluto di tutto il sistema produttivo cinematografico americano. Le dive, significanti per eccellenza, assumono un loro significato soprattutto perché parti integranti di un meccanismo più generale, in questo caso il film; lo spettatore, spesso del tutto inconsapevolmente, assegna un valore significante a tutto ciò che sulla scena compare, compresa la figura dell'attore.
Barthes si sofferma proprio sulla nozione di significante in una pellicola sottolineando che proprio i costumi, insieme a scenografia, musica, paesaggi e in una certa parte anche i gesti lo siano e che proprio l'incipit di un film sia la parte più densa di significazione. Nel 1937, Darryl F. Zanuck della Fox dichiara che “il costo medio per lanciare una star è di circa un milione di dollari. Avviare un attore o un'attrice su quella che speriamo essere per lui la strada del successo è un vero e proprio gioco d'azzardo […] il costo del guardaroba, ecc... è una voce considerevole”. I film vengono spesso ideati direttamente pensando ad un specifico volto in voga all'epoca poi sfruttato in base al fatto che la star è considerata un vero e proprio prodotto da lanciare sul mercato e da cui trarne dei profitti.
La costruzione del personaggio perciò, oltre all'acconciatura e al trucco, passa in particolar modo dalla costruzione di uno stile, di un abito o una serie di abiti da rendere riconoscibili, iconici; le donne, dopo aver visto un film vogliono acquisire lo stile della loro attrice preferita. Scontato perciò che a decretare i successi di moda in quegli anni siano non tanto le grandi firme della moda quanto più i costumisti come Adrian, Edith Head, Orry Kelly, Travis Banton e molti altri; allora il costumista, come ha sottolineato Edith Head “aveva la stessa importanza di una star. Quando dicevi Garbo pensavi Adrian, se dicevi Dietrich ti veniva in mente Banton. La magia dei loro abiti stava nel fatto che erano un fattore determinante per la vendita di un film”. In questo contesto vengono creati appositamente dei reparti “a tema” in quasi tutti i grandi magazzini ove si potessero acquistare le copie degli abiti dei film più di successo.
Diventa perciò sempre più chiaro quanto il rapporto personaggio-costume stia alla base della costruzione dell'icona cinematografica, dove i divi di questo periodo si costruiscono un'identità ambigua tra immagine cinematografica e immagine reale: la vita reale deve sostenere la personalità della star in una sorta di via di mezzo tra personaggio e persona, i film vengono costruiti appositamente sulla loro corporeità; tra i vari doveri contrattuali della star vi è infatti quello di mantenere uno stile costante tra la finzione cinematografica e la realtà amplificata dalla stampa.
Nella costruzione dell’immagine dell'icona cinematografica è quindi “il rivestimento in genere, come modo di dare enfasi al corpo, a giocare un ruolo fondamentale e la distinzione tra abbigliamento e costume, tra quotidianità e teatralità perde in questo caso consistenza”.
La relazione tra abito e corpo è perfettamente insediato nell'essere uomo o donna: grazie al vestito si disegnano identità, si dipingono ruoli e attribuiscono status; il cinema utilizza la moda dando vita a personaggi, a situazioni, atmosfere del tutto particolari e riconoscibili che spesso restano nell'immaginario collettivo creando icone di stile. Come ricorda Calefato nei suoi studi sulla moda e sulla costruzione identitaria vestirsi vuol dire parlare un linguaggio stratificato, un alfabeto di segni di cui il corpo si ricopre: abiti, accessori, incisioni e tracce sulla pelle, maquillage, acconciature... Valori sociali, funzioni rituali o sacre, generi (e non-generi) sessuali si ritrovano perfettamente in questo gergo antichissimo. Eppure all'origine del vestire come pratica quotidiana, all'origine del gesto più massificato, si nasconde un comportamento archetipico carnevalesco che consiste nel tra-vestire, nel mascherare, nello scrivere il corpo e sul corpo.
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Quando l'abito è il messaggio. Il costume cinematografico come costruzione identitaria.
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Informazioni tesi
Autore: | Mirko Ghiani |
Tipo: | Laurea II ciclo (magistrale o specialistica) |
Anno: | 2011-12 |
Università: | Università degli Studi di Torino |
Facoltà: | Lettere e Filosofia |
Corso: | Teoria della comunicazione |
Relatore: | Ugo Volli |
Lingua: | Italiano |
Num. pagine: | 111 |
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