Un'analisi antropologica della ridefinizione del concetto di vita nella pratica del trapianto di organi
Gli organi come bene di consumo
Da circa la metà degli anni Ottanta in poi, l’esistenza di un commercio illegale di organi ha ricevuto crescente copertura da parte dei media a livello internazionale e ha suscitato l’interesse delle organizzazioni per i diritti umani. I lavori dell’antropologa Nancy Scheper-Hughes, membro della Bellagio Task Force on Organ Transplantation e responsabile di due progetti di ricerca, “Organs Watch” e “Selling Life”, in collaborazione con Lawrence Cohen, contribuiscono da anni a documentare gli abusi relativi al reperimento di organi ai danni delle categorie sociali più deboli. Non è un compito facile, perché questa realtà è ufficialmente minimizzata o negata, e coinvolge autorità, crimine organizzato, operatori sanitari (cfr. Scheper-Hughes 2001, 2004b). È un ambito sul quale spesso aleggia un silenzio complice, giustificato di frequente con il “nobile fine” di salvare vite (scelte accuratamente tra quelli che possono permetterselo).
Nel 1983 fu costituita la International Kidney Exchange da un medico statunitense, H. Barry Jacobs, con l’intento di reperire reni da donatori viventi del Terzo Mondo. L’India, dove vendere un organo fu legale fino alla promozione di una legge del 1994 ed era diffuso il commercio di sangue, divenne la principale fornitrice: i donatori, provenienti da quartieri poveri o baraccopoli, vivono in situazioni finanziarie familiari precarie e percepiscono una parte relativamente piccola del ricavato (cfr. Scheper-Hughes 2001). Solitamente pressati dai debiti, sono soprattutto donne se risiedono in città e uomini provenienti dai centri minori. Aggirare la legge sui trapianti di organi del 1994, promulgata in seguito alle notizie riguardanti i cosiddetti “bazar di reni” delle città indiane, non è difficile, perché essa consente, previa approvazione dei comitati medici, la donazione tra estranei (cfr. Cohen 2004).
Poiché nel mercato nero di organi sono implicati il crimine organizzato, gli ospedali e anche rappresentanti politici, in molte zone esso è parte importante dell’economia ed è largamente supportato. I pazienti principali sono ricchi mediorientali che possono permettersi il viaggio, le spese mediche, il compenso dell’intermediario, del donatore e del comitato di autorizzazione corrotto (cfr. Scheper-Hughes 2001). Se inizialmente la pratica suscitava l’indignazione popolare, ora è entrata nell’immaginario collettivo come possibilità di guadagno concreta o come metodo per accumulare una dote per le parenti femmine (cfr. Cohen 2004). Essa fa leva sulla debolezza di categorie sociali in stato di bisogno, spesso disoccupati, che cedono una risorsa naturale illudendosi che, in quanto organo doppio, il danno sarà minore del beneficio. In realtà, il ricavato finisce troppo presto, lasciandoli ancora più inermi, perché spesso non hanno ricevuto adeguate cure postoperatorie e hanno ancora meno garanzie di essere curati se si ammalerà il rene rimasto (cfr. Scheper-Hughes 2001).
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Un'analisi antropologica della ridefinizione del concetto di vita nella pratica del trapianto di organi
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Informazioni tesi
Autore: | Maria Elena Rodriguez |
Tipo: | Laurea I ciclo (triennale) |
Anno: | 2005-06 |
Università: | Università degli Studi di Bologna |
Facoltà: | Lettere e Filosofia |
Corso: | Scienze Antropologiche |
Relatore: | Ivo Quaranta |
Lingua: | Italiano |
Num. pagine: | 99 |
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