Indagine conoscitiva sugli effetti psico-emotivi del pianto inconsolabile del neonato: il ruolo dell’ostetrica nella prevenzione e nel trattamento dei disturbi di relazione genitore-bambino
Gli effetti del pianto inconsolabile
In questo capitolo verrà condotta una revisione della letteratura per individuare la presenza di evidenze scientifiche sugli effetti psicoemotivi che il pianto inconsolabile può determinare nei genitori e sugli effetti che un pianto prolungato può provocare nel neonato, in termini di salute, sia nel breve che nel lungo termine.
Questo è ancora un campo di ricerca non molto indagato, ma gli studi presenti hanno messo in evidenza che un pianto eccessivo e prolungato può determinare gravi conseguenze relazionali con il neonato.
Nei capitoli precedenti sono stati definiti i vari motivi che possono spingere un neonato a piangere, sia in condizioni di normostress che in condizioni di distress, ed è stata presa anche in considerazione l’ipotesi che un disturbo di relazione genitore-bambino prenatale e/o post-natale possa essere una delle cause scatenanti del pianto eccessivo.
L’obiettivo della seguente revisione è invece quello di capire se il pianto eccessivo possa peggiorare ulteriormente il legame già compromesso all’interno della triade o se possa esso stesso divenire la causa determinante di un disturbo di relazione ‘ex novo’ dopo la nascita del neonato.
Effetti sul neonato
I più recenti studi delle neuroscienze hanno dimostrato che un pianto prolungato è strettamente correlato alla salute mentale infantile e può determinare dei danni al neonato, riducendo le sue capacità emozionali e sociali.
Nel breve termine sono stati rilevati, oltre ad effetti psicologici negativi, anche degli effetti endocrini legati agli alti livelli di ormoni dello stress che il bambino produce durante la crisi di pianto che, come già evidenziato in precedenza, fa perdere al neonato il ritmo e l’equilibrio tra le polarità del sistema nervoso e la capacità di autoregolazione neurologica, ormonale e comportamentale.
La quantità di cortisolo prodotta dal bambino in distress influisce sullo sviluppo dei sistemi di neurotrasmettitori che ancora non sono pienamente maturi, rendendo il neonato incapace di gestire gli alti livelli di stress. È proprio nel primo anno di vita, infatti, che lo stress eccessivo può avere effetti molto dannosi sulle sinapsi e, soprattutto, può determinare instabilità tra le connessioni della corteccia prefrontale con le aree più primitive del cervello.
Secondo la psicanalista tedesca Sue Gerhardt, che ha condotto degli studi in merito, questa instabilità, determinata dalla condizione di stress prolungato vissuta in epoca neonatale, incide fortemente sugli stati di ansia e di paura del bambino nei primi anni della sua vita, rendendolo incapace di individuare le reali situazioni di pericolo e predisponendolo maggiormente all’iperattività e a deficit cognitivi.
La Gerhardt spiega che lo stress cronico e gli alti livelli di cortisolo determinano anche degli effetti dannosi sulle strutture cerebrali dell’ipotalamo, dell’ippocampo e dell’amigdala (che rappresentano le sedi anatomiche adibite alla capacità della regolazione) e spiega che la mancata integrazione tra il sistema limbico e le cortecce prefrontali interferisce con le capacità di apprendimento e con il processo di elaborazione delle memorie inconsce.
In condizioni fisiologiche, l’ippocampo aiuta ad abbassare i livelli di cortisolo regolando l’attività delle ghiandole surrenali attraverso un feedback che indica allo stesso ipotalamo quando ridurre la produzione di ACTH, ormone responsabile della stimolazione della secrezione di cortisolo a livello surrenale.
In situazioni di distress l’ippocampo perde questa capacità e gli alti livelli di cortisolo possono arrivare ad atrofizzare le sue cellule, aumentando la probabilità che si verifichino disturbi relazionali e dell’apprendimento.
Gli alti livelli di cortisolo agiscono anche a livello dell’amigdala andando ad inibire l’elaborazione delle memorie inconsce legate a paure, traumi e rabbia, generando così nell’individuo risposte automatiche di tipo impulsivo, prive di controllo.
Se la condizione di stress si verifica già durante la vita prenatale, il neonato nascerà con delle difficoltà ancora maggiori nella regolazione della produzione ormonale.
In gravidanza, se si presenta uno stimolo stressorio che altera i livelli degli ormoni dello stress materni, la placenta si occupa di filtrare e neutralizzare l’azione del cortisolo e delle catecolamine in eccesso, per ripristinare l’omeostasi. Questo permette alle ghiandole surrenali fetali di rimanere silenti fino alle ultime 4-6 settimane prima del parto, periodo in cui anche il neonato incomincia a produrre il proprio cortisolo che gli consentirà di adattarsi meglio alla vita extrauterina e gli fornirà le energie necessarie per partecipare attivamente alla nascita.
Invece, in situazioni di stress cronico viene stimolata l’attivazione precoce delle ghiandole surrenali fetali e il bambino inizia a produrre cortisolo prima del tempo.
Questo incide negativamente sui circuiti cerebrali in formazione, determinando nel neonato una maggiore difficoltà nella regolazione ormonale e, di conseguenza, una maggiore predisposizione alla perdita di controllo e al pianto inconsolabile.
Nei neonati che entrano nella condizione di distress viene alterato l’intero sistema relazionale e comportamentale e vengono inibite anche le capacità di coping, ovvero quelle capacità reattive e adattative verso gli stimoli ricevuti dall’ambiente esterno.
In condizioni fisiologiche è proprio il cortisolo che regola queste capacità, agendo sul sistema ormonale, immunitario, neurovegetativo e sul metabolismo per generare risposte adeguate agli stimoli stressogeni, mentre, quando i livelli di stress aumentano, il cortisolo agisce coordinando tutti questi sistemi fisiologici in senso contrario, andando ad inibire le capacità di coping dell’organismo.
Il continuo stato di agitazione di un neonato in distress altera il suo intero funzionamento neurologico e psicofisico che sarà regolato dagli alti livelli di cortisolo, determinando un costante stato di eccitazione. Questa condizione potrebbe, in seguito, far sviluppare al
bambino e all’adulto delle malattie fisiche e psicologiche, come allergie o malattie autoimmuni, depressione o disturbi del comportamento alimentare.
Questo può accadere perché un organismo che si trova nella fase di sviluppo di tutte le sue funzioni, come il neonato, rivela una vulnerabilità molto elevata nei confronti dei diversi stimoli esterni ed interni e, in particolare, quelli percepiti come spaventosi o negativi inducono molto più facilmente una condizione di distress e risultano essere maggiormente dannosi per il bambino, proprio a causa della sua immaturità.
Infatti, durante i periodi critici di sviluppo del sistema immuno-neuro-endocrino, i neurotrasmettitori, gli ormoni e le citochine aumentano più rapidamente quando i livelli di stress si presentano in concentrazione non fisiologiche.
Nonostante la vulnerabilità di un organismo sia maggiore nella fase di sviluppo prenatale e perinatale, è proprio in questo periodo che la capacità dell’organismo del neonato di mantenere il suo equilibrio interno influenzerà gli stati successivi di salute della vita umana.
Lo stato immunologico, neuroendocrinologico, psicologico, sociale ecc. fin dalle primissime fasi della vita umana sono in stretta relazione con il sistema nervoso centrale.
I processi fondamentali della vita, come ad esempio il metabolismo, il processo d’informazione, la risposta immunitaria e la riproduzione, sono controllati dal sistema endocrino neuroimmune, di cui il cervello è il principale regolatore.
Gli ormoni sistemici, i mediatori chimici delle risposte immuni, i neurotrasmettitori e tutti i messaggeri chimici presenti all’interno di questo sistema complesso svolgono un ruolo di primaria importanza.
Lo stress, la depressione materna, la separazione materna, i disordini e le disfunzioni ormonali, le infezioni di vario tipo e le influenze ambientali influiscono sul cervello del neonato alterando lo sviluppo neuro-endocrino e regolando in maniera anomala il rilascio di messaggeri chimici endogeni. Questo può determinare disturbi cognitivi e disturbi del suo stato psicologico, emotivo, affettivo e fisico sia nel breve temine che nella vita futura.
Un pianto prolungato può determinare anche l’abbassamento delle difese immunitarie che nel neonato sono ancora in corso di maturazione.
In presenza di pianto e condizione di stress protratti per lunghi periodi, si riscontra nel bambino, oltre che una predisposizione maggiore all’irritabilità e alla iperattività, anche una maggiore suscettibilità alle infezioni ed una maggiore fragilità respiratoria già nel primo anno di vita.
Uno studio pubblicato nel 2014 ha osservato anche che l'esposizione del neonato ad alti livelli di ansia perinatale aumenta il rischio di bronchiolite nel primo anno di vita.
In conclusione, il mantenimento di un corretto equilibrio della regolazione nervosa può influenzare il destino dello stato di salute psiconeuroendocrinologico e psiconeuroimmunologico nel corso dell’intera vita dell’individuo.
La gestione del pianto si configura come il principale obiettivo da raggiungere affinché questo equilibrio venga mantenuto.
Lo stress cronico interferisce, quindi, con i diversi sistemi fisiologici, tra cui quello relazionale e comportamentale.
Se il pianto di un neonato viene ignorato in maniera continuativa, lo stress accumulato potrebbe compromettere l’equilibrio percettivo e le capacità affettive del bambino.
Infatti, quando i bisogni del neonato vengono ignorati o trascurati in modo ripetuto, nel bambino si generano livelli di stress paragonabili a quelli che si vivono in eventi traumatici, come per esempio un lutto importante in famiglia, poiché il neonato percepisce un pericolo per la sua sopravvivenza.
Non sempre, però, il comportamento del “non ascolto” deriva da una situazione generale di trascuratezza e indifferenza legata a problemi di disturbo del legame affettivo o distacco relazionale, a volte questo è una scelta consapevole dei genitori che però, probabilmente, non sono a conoscenza delle conseguenze di questa azione.
Al giorno d’oggi, alcuni genitori ritengono che sia utile lasciar piangere il proprio bambino e scelgono di non rispondere al suo pianto per paura di ‘viziarlo’. Lo fanno, infatti, per evitare che il neonato si abitui alla disponibilità continuativa, durante l’intera giornata, al contatto fisico ed emotivo, per il timore che nel tempo sviluppi una dipendenza all’accudimento e che non acquisisca una propria autonomia nella vita futura.
I genitori che mantengono questo tipo di condotta evidentemente vivono il pianto come un problema e non come una forma di comunicazione e pensano che lasciar piangere da solo il bambino gli permetterà di imparare ad autoregolarsi e a gestire prima il suo comportamento ed il suo sonno.
Queste modalità di pensiero e di comportamenti si sono diffusi all’inizio del XX secondo, quando il pediatra americano Emmet Holt presentò nel suo libro ‘The care and feeling of children’ (1912) un metodo di addestramento del pianto, chiamato ‘Cry it out’, per risolvere il problema del pianto della notte e permettere ai genitori di ripristinare le ore di sonno notturno a cui erano abituati prima della nascita del loro bambino.
Questo metodo prevedeva di lasciar piangere da solo il neonato fino al momento del suo spontaneo addormentamento, sostenendo che un neonato che viene ignorato prima o poi esaurisce le sue energie, si arrende e si abbandona al sonno.
Seguendo questa tecnica i genitori hanno incominciato a non rispondere più alle richieste dei propri figli e man mano si è diffusa l’idea che un neonato, sin da subito, debba riuscire ad ‘auto-calmarsi’ per imparare a dormire per tutta la notte, come gli adulti.
Inoltre, alcuni autori hanno incominciato a sostenere che i neonati avevano bisogno di piangere da soli perché senza questo allenamento quotidiano i loro polmoni non si sarebbero espansi del tutto. Da qui è nata l’espressione popolare del ‘pianto che fa i polmoni’.
Successivamente, nel 1985, è apparsa una nuova tecnica per il controllo del pianto notturno, chiamata tecnica di ‘attesa progressiva’’ o ‘metodo 5-10-15’.
Il fautore di questo metodo, il dottor Richard Ferber, neurologo e pediatra dell’Università di Harvard e presso l’ospedale pediatrico di Boston, sostenendo l’ipotesi che cullare ed allattare il neonato di notte non lo aiuta ad addormentarsi da solo, ha ideato una tecnica di controllo del sonno meno rigida e più graduale rispetto alla precedente.
Questa tecnica, simile ad un programma di allenamento, prevede di confortare il bambino che piange di notte ad intervalli di tempo predeterminati e di aumentare gradualmente i periodi interposti tra i momenti di accudimento, in modo da favorire un graduale apprendimento del sonno notturno.
Nel corso del XX secondo sono sorte numerose critiche rispetto a questi metodi e molti autori hanno considerato inaccettabile sottoporre il neonato a periodi di tempo, più o meno prolungati, di solitudine e di angoscia, affermando inoltre che questo sistema potrebbe compromettere l’alimentazione notturna e la regolazione dei ritmi fisiologici del neonato. Altri autori invece hanno sostenuto questo approccio di addestramento.
Oggi la ricerca ha fatto dei grandi progressi ed è arrivata ad identificare le conseguenze del pianto ignorato, dimostrando che esso induce l’aumento di grandi quantità di ormoni dello stress perché il neonato si sente in pericolo e ha paura della morte (Katharina Saalfrank, 2013), dal momento che non può risolvere in autonomia il suo bisogno fisiologico o affettivo.
In una società in cui predomina la cultura dell’autodeterminazione, che spinge ciascun individuo a dover raggiungere ad ogni costo gli obiettivi prestabiliti unicamente con le proprie forze e che difficilmente lascia spazio alla collaborazione e al riconoscimento della fragilità umana, anche i neonati vengono accuditi nella speranza che raggiungano più velocemente la propria indipendenza.
Ma la biologia non conosce cultura e i neonati fin dall’inizio dei tempi si configurano come esseri totalmente dipendenti, dotati della competenza del pianto come strumento comunicativo primario e sarà proprio la totale disponibilità alla presenza e all’accoglienza dei bisogni espressi che formerà, secondo ritmi di adattamento più o meno lenti, le sue competenze relazioni e il suo assetto comportamentale.
È dunque fondamentale abbandonare l’idea del pianto come uno stato da poter condizionare, mentre è importante accettarlo come stato adattivo e fisiologico necessario al neonato per poter interagire fisicamente e affettivamente con il caregiver, ai fini della sopravvivenza e dell’apprendimento cognitivo e relazionale. Questo tipo di approccio apre alla possibilità di una maggiore disponibilità all’accoglienza del pianto.
La sana relazione di accudimento e di attaccamento genera, infatti, nel neonato alti livelli di endorfine, ormoni che stimolano in lui l’apprendimento e la soddisfazione, ponendo le basi per quella che sarà la sua capacità di autoregolazione degli stati affettivi con sé stesso e con gli altri.
Crescere un figlio non è una questione di ‘metodo’ o di ‘addestramento’, ma è un processo di conoscenza, caratterizzato da imprevedibilità e dalla scoperta e sintonizzazione graduale dei reciproci bisogni e necessita di tempo perché possano consolidarsi le giuste dinamiche di relazione fra i protagonisti della triade.
Alcuni studiosi sostengono che il metodo di accudimento dell’attesa progressiva non abbia alcuna validità pedagogica, poiché i neonati non hanno la percezione del tempo uguale a quella di un adulto, ma anzi la loro percezione temporale è completamente diversa.
I neonati, infatti, non sanno quantificare il tempo, non sanno percepire se il pianto dura per cinque o dieci minuti e questo li rende incapaci di trarre conclusioni adeguate circa la durata del loro pianto. Inoltre, utilizzano il pianto per soddisfare i propri bisogni e per ristabilire la connessione emotiva con il caregiver, qualora ne sentano la necessità, e non possono comprendere di dover limitare le loro richieste durante la notte.
Karl Heinrich Brisch, primario di medicina psicosomatica presso l’Ospedale Pediatrico dell’Università di Monaco, spiega in un’intervista che i neonati, quando vengono lasciati piangere da soli, “apprendono molto presto ad attivare nel cervello un piano di emergenza, molto simile al riflesso di tanatosi osservato negli animali quando sono in pericolo di vita, che consiste nel simulare la morte”.
Il pianto esprime l’urgenza della consolazione e annuncia un bisogno improcrastinabile. Ignorare tale richiamo può determinare gravi conseguenze in loro.
Infatti, se il pianto viene sistematicamente ignorato, ad un certo punto il neonato si adatta all’alto livello di stress e smette di piangere, non certamente perché ha trovato da solo la soluzione alle sue necessità, ma perché ha recepito che nessuno si interessa a rispondere alla sua richiesta, sviluppando così una modalità di adattamento a questo tipo di stimolo esterno.
Da studi osservazionali condotti negli orfanotrofi rumeni è emerso che i bambini lasciati per molto tempo soli a piangere inconsolabilmente, dopo poche settimane presentavano una “depressione anaclitica”: i neonati non emettevano più alcun tipo di suono o lamento, si muovevano il meno possibile, non reagivano agli stimoli e non interagivano più con nessuno. Sembravano come morti emotivamente, rassegnati al fatto che nessuno fosse interessato a loro.
Erano tutti neonati accuditi e nutriti normalmente, quindi non trascurati nei loro bisogni fisiologici, ma che hanno ricevuto un tipo di accudimento ‘passivo’ e privo di contatto (i biberon venivano semplicemente appoggiati nelle culle) e sono stati abbandonati dal punto di vista emotivo a causa della carenza di personale, che vedeva un assistente per ogni 20 bambini, e a causa della mancata formazione relativa ai corretti modelli di educazione dell’infanzia.
Il loro pianto iniziale, espressione del bisogno di vicinanza, di contatto e di affetto, rimaneva inascoltato per giorni, inducendo in loro la sensazione di non essere amati e accolti, e questo fenomeno ha generato in loro una reazione adattativa, fisica ed emotiva, di tipo regressivo.
L’autrice di questo studio, la psichiatra Mary Carlson, ha dimostrato la presenza di altissimi livelli di cortisolo in questi neonati orfani, livelli che si sono mantenuti costanti fino al secondo anno di vita. Inoltre, ha dimostrato la predisposizione in età infantile all’isolamento sociale e all’iperattività.
Nei gruppi di controllo, invece, costituiti da alcuni dei neonati allontananti dall’orfanotrofio e cresciuti secondo modelli di accudimento differenti, sono state riscontrate maggiori capacità cognitive, relazionali e motorie ed anche un accrescimento fisco maggiore.
Altri studi hanno dimostrato anche la predisposizione dei neonati cresciuti in orfanotrofi di sviluppare in età adulta disturbi depressivi, di ansia, di insonnia e anche dipendenze.
I risultati di queste indagini fanno emergere l’importanza dell'interazione sociale ed affettiva nello sviluppo della regolazione emotiva e nello sviluppo del senso di sé e mettono in evidenza le conseguenze di una mancata relazione e di un mancato contatto tra il bambino e il caregiver, condizione che compromette la salute dell’individuo anche nel lungo termine.
È stato dimostrato da numerose ricerche che i neonati che vengono invece accuditi in maniera affettuosa, instaurando un legame fisico ed emozionale costante durante i primi mesi di vita, manifestano livelli inferiori di cortisolo e maggiori comportamenti esplorativi durante l’infanzia e, in età adulta, presentano meno tendenze depressive, sono dotati di maggiore empatia e raggiungono livelli di produttività più alti rispetto a neonati che ricevono meno attenzioni e contatto fisico.
Questo brano è tratto dalla tesi:
Indagine conoscitiva sugli effetti psico-emotivi del pianto inconsolabile del neonato: il ruolo dell’ostetrica nella prevenzione e nel trattamento dei disturbi di relazione genitore-bambino
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Informazioni tesi
Autore: | Alessandra La Penna |
Tipo: | Laurea I ciclo (triennale) |
Anno: | 2021-22 |
Università: | Università degli Studi di Perugia |
Facoltà: | Ostetricia |
Corso: | Classe delle Lauree delle Professioni Sanitarie Infermieristiche e Professione Sanitaria Ostetrica/o . |
Relatore: | Simona Freddio |
Lingua: | Italiano |
Num. pagine: | 241 |
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