Aurora: sfide, opportunità e criticità di un quartiere gentrificato
Gente senza casa, case senza gente. Riflessioni sul diritto alla città e all’abitare
Viene considerata un’abitazione vuota un’unità abitativa non utilizzata in un determinato momento temporale per via di motivazioni differenti, dalla volontà di tenere volontariamente un immobile al di fuori dei circuiti del mercato immobiliare sia per motivazioni private sia per eventuale fine speculativo oppure per via di un cattivo stato di conservazione. Gli edifici non utilizzati possono essere classificati come: «Naturali», ovvero vuoti per garantire il corretto andamento degli investimenti nel circuito edilizio o come «Problematici», termine con cui sono indicati tutte le proprietà che sono inutilizzate per i motivi più disparati ma rappresentano una quota che supera quella necessaria per gli scopi investitivi. Si inizia ad indicare come problematico un luogo non utilizzato per più di sei mesi ma, le differenti motivazioni addette dai proprietari in merito, rendono difficile stabilire un criterio comune per ottenere un censimento effettivo dei medesimi. Una problematica diffusa nel calcolo è legata all’interrogarsi sul se sia il caso o meno di inserire le seconde case di proprietà all’interno del conteggio. In alcune occasioni è stato fatto e, secondo alcuni studiosi, ciò giustificherebbe la localizzazione del tasso più elevato di immobili sfitti all’interno dell’area mediterranea (Italia, Malta, Spagna, Grecia). Il tutto ha portato a definire un sistema abitativo a sé stante, detto «Mediterraneo», con caratteristiche distinte rispetto agli analoghi nordeuropei, che registrano tassi di immobili non utilizzati nettamente inferiori.
Gli ultimi dati disponibili in merito alle abitazioni sfitte sono datati 2011 e segnano nel Comune di Torino la presenza di 34.474 locali su un totale di 459.206 unità residenziali: dal dato bisogna tenere in considerazione la necessità di escludere gli immobili soggetti a ristrutturazione, vuoti ma solo temporaneamente. Il criterio utilizzato per la misurazione prende in considerazione i dati forniti dalla tassa sui rifiuti TARI; questa è un: «Tributo destinato a finanziare i costi relativi al servizio di raccolta e smaltimento dei rifiuti ed è dovuta da chiunque possieda o detenga a qualsiasi titolo locali o aree scoperte suscettibili di produrre i rifiuti medesimi». Il versamento dell’imposta deve essere versato anche dagli inquilini, cioè chi occupa un’abitazione per un periodo superiore ai sei mesi all’anno.
Proprio a questi dati fanno riferimento organizzazioni politiche non governative che da anni denunciano la situazione connessa all’emergenza abitativa e la mancata tutela del diritto alla casa da parte delle autorità cittadine competenti. Queste si interrogano, attraverso riunioni periodiche ed istituzioni fisse come sportelli tematici appositamente dedicati, sulla sorte di tutti coloro che non possono accedere per mancanza dei requisiti richiesti dalle graduatorie ATC o in attesa di nuovi bandi d’assegnazione di edifici di edilizia popolare. Ovviamente si tratta di persone dalla disponibilità economica limitata che non vedono una soluzione nelle proposte fatte dal Comune di Torino o dagli Housing sociali privati.
Al diritto alla casa o quantomeno l’accesso ad un tenore di vita adeguato per poter avere la garanzia di un’abitazione in cui vivere fanno riferimento diverse legislazioni, sia nazionali che internazionali. L’articolo 25 comma 1 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani dell’ONU recita: «Everyone has the right to a standard of living adequate for the health and well-being of himself and of his family, including food, clothing, housing and medical care and necessary social services, and the right to security in the event of unemployment, sickness, disability, widowhood, old age or other lack of livelihood in circumstances beyond his control». All’interno della Costituzione italiana è contenuto ciò, dentro il testo dell’articolo 47, nella sezione che regola i rapporti economici: «La Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme; disciplina, coordina e controlla l'esercizio del credito. Favorisce l'accesso del risparmio popolare alla proprietà dell'abitazione, alla proprietà diretta coltivatrice e al diretto e indiretto investimento azionario nei grandi complessi produttivi del Paese».
Sebbene ci siano dunque dei riferimenti legislativi che sanciscono questo diritto come universale, non mancano le difficoltà nell’accesso effettivo sia ad una casa sia alla possibilità di risparmiare per poterne prendere in mano la gestione o il possesso. I movimenti relativi alla lotta per l’abitare spesso incentivano ad azioni, quali le occupazioni, che sono interpretate sia dalla legislazione sia da parte dell’opinione pubblica, come negative e da condannare con procedure di tipo penale. Le realtà autogestite inseriscono ideologicamente parlando la rivendicazione del diritto alla casa in un contesto più ampio: quello del diritto alla città e come una possibilità effettiva sia di rivendicazione politica che di partecipazione attiva nell’effettivo aperta a chiunque.
La tematica diventa particolarmente dibattuta a partire dal 1967 con la pubblicazione del saggio «Il diritto alla città» di Henri Lefebvre; la data d’uscita non è casuale, in quanto in concomitanza con il centenario della pubblicazione del primo libro de «Il Capitale» di Karl Marx e, fra l’altro, anticipa quella che l’autore stesso definirà come «Irruzione», ovvero il Movimento del Sessantotto. La lotta per il diritto alla città vedrà convergere al proprio interno moti già esistenti e di matrice eterogenea, oltre a svilupparsi in aree urbane differenti nel mondo. A differenza dell’idea del marxismo tradizionale, che riscontrava la forza trainante delle rivendicazioni sociali all’interno del proletariato di fabbrica, Lefebvre colloca il tutto all’interno di un contesto specifico, quello urbano e parla di classe lavoratrice urbana, maggiormente frammentata, fluida, divisa ma, soprattutto, animata da finalità e bisogni molteplici.
«Oggi il precariato ha preso il posto del proletariato. Se mai esisterà un movimento rivoluzionario all’altezza di questi nostri tempi e di questa nostra parte di mondo il problematico e disorganizzato precariato dovrà esserne parte essenziale. Come questi gruppi eterogenei possano autorganizzarsi all’interno di una forza rivoluzionaria rappresenta il problema politico del presente».
Reclamare il diritto alla città significa rivendicare il potere di avere voce in capitolo su come le aree in cui viviamo vengono progettate, plasmate, costruite, abbattute, ricostruite.
Le aree urbane sono nate come concentrazioni geografiche di un surplus produttivo e l’urbanizzazione è sempre stato un concetto strettamente connesso a quello di classe, fin da quelle che vengono prese da Lefebvre come modelli ideali, ovvero le città rinascimentali toscane, all’interno delle quali il potere era detenuto da specifiche figure politiche, religiose e/o militari. Ciò non è mutato con l’avvento del sistema capitalistico, anzi, in quanto lo scopo ultimo del medesimo è la creazione di un’eccedenza di prodotto (detto: «Plusvalore» o «Profitto»), che può o essere reinvestito per ricavare ulteriori guadagni o può essere impiegato in spese voluttuarie. Solitamente per avere maggiore arricchimento chi è detentore dei mezzi sceglie la prima ipotesi, generando la crescita di un eccesso di produzione e la conseguente ricerca di territori per l’assorbimento del surplus del capitale creato, contrapponendosi a tutto ciò che non consente questa espansione, che si tratti di mancanza di manodopera o della ricerca di nuove risorse naturali, sia a discapito di diverse fasce della popolazione, sottoposta a processi di proletariarizzazione forzata, sia a danno di ambienti ed ecosistemi. Una delle strategie adottate è il ricorso all’urbanizzazione, in quanto passando dalla trasformazione delle strutture presistenti, si modificano necessariamente anche stili di vita e composizione sociale residente e ciò è particolarmente evidente nei fenomeni riqualificativi.
Una delle esperienze storiche maggiormente connesse alla lotta per il diritto alla città, sebbene si trovino dei fenomeni precursori all’interno del contesto parigino rivoluzionario settecentesco, è quella della Comune, tentativo di autogoverno datato 18 marzo – 28 maggio 1871. Questo episodio si colloca in seguito alla sconfitta dell’esercito francese nella battaglia di Sedan (1-2 settembre 1870) per mano prussiana, evento che scatenò il crollo dell’impero di Napoleone III e la proclamazione della Terza Repubblica sotto la guida di un governo di coalizione guidato da Adolphe Thiers. La neonata formazione non aveva però tenuto conto della volontà di autogoverno della popolazione parigina e della sua mancanza di appoggio alle autorità. Guidata dalla spinta di poter avere voce in capitolo per quanto riguardava i trattati da stringere con il nascente Impero tedesco sotto la guida di Otto von Bismarck e, soprattutto, con la rivendicazione del poter avere potere decisionale sulle sorti della città, nasce la Comune, composta sia da personalità aderenti ai sindacati o all’Associazione Internazionale dei lavoratori sia da persone comuni.
Il malcontento nei confronti di Napoleone III era stato espresso anche durante gli anni del conflitto franco-prussiano in quanto l’imperatore era salito al potere con un colpo di Stato; ciononostante fu la sconfitta ad innescare definitivamente la miccia della rivolta e la mancanza di riconoscimento per le autorità preposte da parte del popolo parigino, che si sollevò e cacciò temporaneamente Thiers ed i suoi uomini proclamando l’autogoverno, costringendoli alla fuga a Versailles. Vennero stabilite inoltre la soppressione della polizia ufficiale e la creazione di un corpo parallelo municipale, la revoca dei magistrati con l’elezione di nuove amministrazioni, l’annullamento delle condanne per reati politici emesse durante l’impero e si inneggiò alla ripristinazione di diversi diritti, tra cui quello di associazione e quello di stampa. Il 9 aprile 1871 venne emesso il Manifesto della Comune, intitolato: «L’appello al popolo francese», all’interno del quale vennero sancite ed ufficializzate le idee del movimento.
L’esperienza però capitolò presto, in quanto da Versailles Thiers ed i suoi uomini organizzarono l’isolamento e l’assalto a Parigi, che ebbe luogo e culminò nel maggio 1971. Marx parlò di: «Guerra civile in Francia» in quanto, nella settimana dal 21 al 28 maggio 1971, le fonti storiche dibattono di un numero di morti stimato dagli 8.000 ai 10.000, motivo che fece ribattezzare il periodo come: «Settimana di sangue». Si trattò perlopiù di persone comuni aderenti all’esperienza autogovernativa; tra i morti illustri caduti invece per mano dei comunardi e, nello specifico, sotto l’ordine di Raoul Rigault, uno dei membri della Commissione di Sicurezza autoeletta, ci fu Georges Darboy, arcivescovo di Parigi. Attualmente ai deceduti nella resistenza contro le autorità cittadine ufficiali è dedicata una targa nel cimitero di Père-Lachaise, luogo in cui avvenne sia la sepoltura comune delle vittime sia la fucilazione di alcune delle medesime.
Successivamente alla sconfitta francese, una volta riappropriatosi delle redini della capitale, il governo Thiers fu costretto alla firma del Trattato di Francoforte con la Prussia il 10 maggio del medesimo anno e, tra le varie condizioni, il dover cedere l’Alsazia e la Lorena a Bismarck. Tra le trasformazioni influenti della città in seguito all’esperienza della Comune, ci fu la nascita della Basilica del Sacro Cuore, eretta sul colle di Montmartre per espiare i crimini commessi dai rivoluzionari a monito e simbolo di come storia ed edilizia urbana siano sempre strettamente interconnesse.
«Quando una lotta cittadina assume lo statuto simbolico di rivoluzione, come nel caso della Comune di Parigi del 1871, viene definita (già da Marx e ancora con più enfasi da Lenin) come rivolta proletaria, anziché come moto rivoluzionario decisamente più complesso- animato, cioè, dal desiderio di riscattare l’intera città dall’esproprio borghese». I mutamenti architettonici, la riorganizzazione delle strutture e della vita urbana non sono casuali ma fungono da veri e propri strumenti di controllo. Ne abbiamo un primo esempio, oltre che nelle descrizioni della Manchester di Engels, nella ricostruzione della Parigi in chiave di grande capitale ottocentesca, con Haussmann e la realizzazione dei boulevard, come nella riprogettazione urbana dei centri delle città statunitensi in seguito alle rivolte degli anni Sessanta, che prevedeva l’introduzione di barriere che dividessero i quartieri ricchi dai ghetti. Non a caso anche a Torino le ricostruzioni sono andate di pari passo sia (inevitabilmente) con la storia della città e con il suo ruolo di prima capitale italiana, sia successivamente con la volontà di tutela degli interessi degli investitori privati spesso con un coinvolgimento attivo della popolazione originaria prettamente sulla carta dei progetti legati ai bandi.
Chi ha la possibilità di essere realmente parte attiva, coinvolta e propositiva di un piano, anche se dal medesimo è prevista una partecipazione o una co-costruzione e chi, conseguentemente, resta escluso e a quali mezzi può ricorrere?
Questo brano è tratto dalla tesi:
Aurora: sfide, opportunità e criticità di un quartiere gentrificato
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Informazioni tesi
Autore: | Maya Fiori |
Tipo: | Laurea II ciclo (magistrale o specialistica) |
Anno: | 2021-22 |
Università: | Università degli Studi di Bologna |
Facoltà: | Antropologia culturale ed Etnologia |
Corso: | LM-1 |
Relatore: | Elisa Magnani |
Lingua: | Italiano |
Num. pagine: | 125 |
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